I'm not a stranger to the dark
Hide away, (I) say, 'cause (I) don't want your broken parts
I've learnt to be ashamed of all my scars
Run away, (I) say, no one will love you as you are
But I won't let (this) break me down to dust
Per giorni, prima di quella sera, Laurie si era chiesta se alla fine avrebbe partecipato davvero al ballo di Halloween oppure no. Non si sentiva in vena di festeggiare, né pensava fosse il
periodo più adatto per farlo. Almeno, l’ultimo Gran Ballo a cui aveva partecipato era stato indetto per sancire la fine della Grande Illusione, per rincuorare gli animi e dimostrare a tutti che, nonostante i feriti, la paura, le cicatrici
(e le perdite di memoria) ne erano usciti vittoriosi; questa volta, non pensava ci fosse una vittoria ad alleggerire il peso sulle loro spalle, anzi. In qualche modo, con Kedavra Mandylion ancora in coma e quel Morbo che aveva stretto la nazione in una morsa gelida, Laurie sentiva che erano ben lontani dall’aver vinto qualcosa, in quel contorto gioco che i Negromanti stavano giocando. L’intero paese sembrava isolato, tra rapporti diplomatici precari, panico diffuso e sospetto vicendevole.
Forse il preside Dolus aveva organizzato quella festa per farli svagare un po’, per dimostrare che non si stavano piegando sotto il peso degli eventi, ma Laurie non ne era troppo convinta, né si sentiva granché dell’umore.
Oltre alla propria morale combattuta, infatti, Laurie aveva anche motivi personali per non sentirsela: la relazione con Gregory, che le aveva riempito così tanto le sue giornate e i suoi pensieri, si era appena conclusa, lasciandola con un vuoto che non sapeva come colmare – sempre ammesso che fosse possibile colmarlo. Era certa che dentro di sé sarebbe sempre rimasto un buco a forma di Gregory Destiny Mandylion; forse, con il tempo, sarebbe diventato un’impronta, un tassello di quello che era diventata e non una cicatrice: anche se alla fine avevano capito che la loro relazione era giunta al capolinea, Laurie sentiva di essere cresciuta, grazie a Greg, e continuava a provare un affetto dilaniante per il ragazzo. Era ancora troppo presto, però, per riuscire a vederla serenamente, e l’idea di un ballo, quando all’ultima occasione del genere era stato proprio il Corvonero a invitarla e guidarla poi nelle danze, non aiutava nemmeno un po’.
Alla fine, però, aveva ceduto: in fondo aveva già ottenuto l’invito ed era una degli insegnanti, nonché giornalista del Settimanale delle Streghe (carica che aveva senso in quel contesto, dato che forse Lottie avrebbe potuto proporre un articolo incentrato su di esso). Non erano stati però i suoi ruoli a darle la spinta per decidersi; la verità era che, dopo aver rimuginato per mesi sugli errori compiuti durante l’ultimo attacco, dopo aver passato tutto quel tempo dal suo risveglio dal coma a non accettare le proprie ferite, dovute alla sua incoscienza e non a un atto di coraggio, una mattina si era svegliata stanca di rinchiudersi in una bolla autodistruttiva. Non sopportava più il proprio Io critico e gli elenchi interminabili di tutto ciò che la rendeva meno valida degli altri – o meglio, non sopportava più quella versione di se stessa che si rannicchiava in un angolo, annaspando, schiacciandosi da sola in un vicolo cieco e limitandosi a piangersi addosso. Se c’era una cosa che aveva imparato grazie a Gregory, era che doveva iniziare ad affrontare le sue angosce e ad accettarle invece di rifuggirle o imbottigliarle.
Avrebbe accettato i propri errori, e sarebbe andata avanti. Avrebbe imparato a camminare sulle
proprie gambe.
Così, sfidando se stessa e la propria reticenza, aveva iniziato a pensare all’ultimo secondo a un costume da indossare: nella propria camera da letto, al numero diciotto, aveva steso sul letto gli abiti che le erano parsi più adatti all’occasione, ma li aveva scartati tutti, per un motivo o per un altro. Aveva riposto il vestito
open-back ricamato di Rune nell’armadio, con il cuore pesante: non sapeva se avrebbe mai più indossato l’abito con cui aveva danzato insieme a Destiny. Il mantello scarlatto con cui aveva impersonato Cappuccetto Rosso, anni prima, era stato ripiegato e rimesso nel baule, perché, simbolicamente, Laurie non voleva più sentirsi una ragazzina ingenua sperduta nel bosco. Le orecchie e la coda da gatto dell’Halloween precedente, infine, le avevano ancora ricordato la sera in cui lei e Greg si erano baciati per la prima volta e avevano seguito il mantello nel baule.
Frustrata, aveva continuato a pensare a quel problema anche durante il resto della giornata, mentre lavorava. L’illuminazione era giunta alla redazione della Gazzetta: ispirata da un articolo su cui stava lavorando il suo collega Campbell, aveva provato a immaginarsi nei panni di un artista del Circus Arcanus… e, finalmente, l’idea le era venuta.
In un certo senso,
metaforicamente, serviva a convincersi che era in grado di dirigere la propria vita, che era in grado di accettarsi in quelle cicatrici e che poteva imparare dai propri errori, come avevano fatto i
ringleaders del famigerato circo. Il bastone con cui era costretta a camminare non sarebbe stato un impedimento ma una parte integrante del costume, qualcosa di fondamentale che lo legittimava, in qualche modo. E poi, le sarebbe sembrato di dare finalmente omaggio alla cattedra che aveva ottenuto con fatica e di cui non aveva ancora gioito come avrebbe voluto.
Uscita dalla redazione, quindi, si era precipitata nella Londra Babbana, sperando di trovare qualche negozio che vendesse gli oggetti che cercava: un cappello a cilindro, tanto per iniziare. Era riuscita miracolosamente a racimolare quello che le serviva – dopotutto, anche i Babbani festeggiavano Halloween – e a imbastire il suo costume, anche se era probabilmente in ritardo, ora, mentre mostrava il proprio invito ai Cancelli e si aggiustava nervosamente i polsini della marsina di velluto.
Zoppicando mentre si appoggiava al bastone in legno di vite, in cui aveva riposto il catalizzatore, si sistemò un’ultima volta i piccoli bottoncini bruniti, legati tra loro da delle catenelle, che chiudevano il frac rosso borgogna subito sotto il petto, sotto i
reverse. Era un po’ insolito, per lei, indossare un frac: non era abituata al panciotto, ricamato color bronzo, e trovava bizzarra la forma della giacca, che, dopo essersi stretta sulla vita, oltre la doppia fila di bottoni al centro, si tagliava verso l’esterno per mostrare l’attaccatura dei pantaloni a vita alta, dello stesso motivo del panciotto, per poi estendersi di nuovo a coprirle i fianchi e il lato esterno della coscia, scendendole lungo le cosce e dividendosi nella tipica coda di rondine. Forse avrebbe preferito qualcosa di più coprente di una giacca, un panciotto e una camicia bianca, per ripararsi dalle folate autunnali, ma resistette alla tentazione di Evocare un mantello e preferì affrettarsi verso l’interno del Castello, pur prestando attenzione a dove metteva gli stivali marrone scuro, alti fino al ginocchio.
Le danze erano già iniziate, quando arrivò in Sala Grande. Aggiustandosi il cappello a cilindro sulla testa e la semplice maschera nera che le copriva la parte superiore del viso, lasciò vagare gli occhi sulla folla di gente in maschera: l’effetto era a dir poco destabilizzante, sotto la moltitudine di zucche ghignanti che levitavano, illuminate dall’interno dalle candele. Quel contrasto tra la sala familiare e l’orda di sconosciuti impegnati a seguire la musica delle Sorelle Stravagarie le faceva quasi sembrare di essere saltata senza accorgersene in un’epoca diversa. Per di più, le maschere le impedivano di riconoscere i volti altrimenti noti… anche se non poté far a meno di notare un dottore della peste scendere le scale del palchetto vicino all’ingresso della sala, accompagnato da una dama che non poteva essere certa di aver mai visto prima. Squadrò la maschera del preside, disapprovando in silenzio: le sembrava poco delicato, indossare una maschera da Dottore della Peste, considerate le circostanze in cui la maggior parte di loro versava. Che messaggio voleva dare? Che aveva paura di essere contagiato, anche se il San Mungo aveva già dimostrato e dichiarato che il Morbo Bianco non era trasmissibile? O forse era un modo per sdrammatizzare, anche se Dolus non le era sembrato per nulla una persona prona all’umorismo?
Rabbrividì, decidendo di distogliere l’attenzione dal suo datore di lavoro. Era sicuramente di parte, ma pensava che Kedavra Mandylion avrebbe affrontato molto meglio tutto quello – e, con una punta di risentimento del tutto personale, si disse che non l’avrebbe assunta senza degnarsi nemmeno di conoscerla di persona. Ma non sapeva se avesse convocato gli altri insegnanti, d’altra parte.
Decisa a scaldarsi dopo essersi subita l’atmosfera fredda e autunnale, si spostò vicino a uno dei camini, zoppicando mentre si appoggiava al bastone. Non potendo mangiare nulla per via del Morbo, si sarebbe limitata a godersi la musica delle Sorelle Stravagarie, mentre lasciava vagare gli occhi sulla pista, su Dolus e la sua misteriosa accompagnatrice, sperando di incrociare un volto conosciuto. Non la allettava granché l’idea di passare la serata da sola, anche se una parte di sé si stava già pentendo di essere uscita di casa.