| Ho già largamente espresso la mia riluttanza nei confronti dell'attività fisica, perciò la domanda sorge spontanea: come mi era venuto in mente di farmi avanti per entrare nella squadra di Serpeverde? In realtà non saprei bene spiegarlo. Quando seppi di quell'opportunità, qualcosa dentro di me subito mi indirizzò ad intraprendere quella strada, o quantomeno a provarci. Sebbene lo sport non fosse nelle mie corde, pensavo che mi avrebbe fatto bene fisicamente e mentalmente sia allenarmi, sia dedicarmi ad un'attività. Inoltre sarei stata contenta di essere una parte attiva della mia Casata, che lavora sodo tanto nello studio quanto nelle altre attività che potevano portargli lustro. Perciò, che non si pensi che solo perché non ero una sportiva prendevo la faccenda sotto gamba! Tutt'altro! In realtà non credo di aver mai preso nulla alla leggera; nel momento in cui iniziavo a dedicarmi a qualcosa davo sempre il massimo, non mi sarei mai perdonata un fallimento o, peggio ancora, un lavoro a metà. Dopo un non brillantissimo test teorico, era ora della pratica. Certo, pensare di dovermi in qualche modo rifare col fisico, quando la parte su cui puntavo di più, o meglio più allenata, era la testa... non era ciò che ci voleva. Ma scossi via quel pensiero non appena lo intercettai e cominciai a pensare solo positivo. Prospettarsi il peggio non avrebbe portato a nulla di buono. Arrivai pertanto al Campo di Quidditch e cli c'erano sia chi come me tentava di entrare in squadra, sia chi invece ne faceva già parte. Il Capitano della squadra, Morgana, diede a noi reclute il benvenuto, poi si presentò. Seguì un discorso a metà tra l'incoraggiamento ed il monito, per poi passare all'illustrazione di ciò che ci aspettava. Il solo realizzare ciò che mi attendeva mi fece sentire stanca. Mentre parlava misi le mani sui fianchi, e intanto che la ascoltavo, ad ogni nuova parte di quell'esercitazione che si presentava la mia espressione si fece sempre più provata. La sensazione era che stessi alzando il sopracciglio destro, ma in verità non ne ero mai stata capace perciò non so veramente cosa uscì fuori, senza dubbio l'espressione inequivocabile di qualcuno già provato in partenza. Ma tentai di riprendermi subito. Morgana passò alla dimostrazione pratica, e mentre la osservato attentamente, cercando di captare ogni aspetto dei suoi movimenti che potesse tornarmi utile per eseguire al meglio quella prova senza arrivare alla fine stroncata da un infarto, mi legai i capelli, così da eliminare intanto un elemento potenzialmente d'intralcio. Poi, quando ebbe terminato, chiusi gli occhi qualche istante e feci profondi respiri, aspirando dal naso ed espirando dalla bocca, tecnica che in passato era sempre riuscita a ridarmi la calma e la stabilità emotiva. Perciò riaprii gli occhi, convinta che potevo farcela, stava tutto nella volontà e nella capacità di non arrendersi al primo ostacolo. Dovevo solo avere fiducia in me stessa, che non mi era mai mancata. Quindi, quando mi sentii più tranquilla, ma soprattutto percepii il recupero delle forze, inizialmente perse per semplice timore, fui pronta ad iniziare.
Una volta accanto alla bandiera verde, avrei piegato un poco le braccia e, facendo leva sulle gambe, mi sarei data la spinta iniziale per partire con la corsa, cercando di fare uno scatto e proseguire ad una velocità crescente. Senza rallentare, ad ormai pochi centimetri di distanza dal primo ostacolo avrei unito le gambe, piegato le ginocchia e mi sarei data la spinta per oltrepassare quel primo step, poi avrei proseguito nella corsa, nuovamente alla vista dell'ostacolo mi sarei fermata pochissimi istanti, strettamente necessari all'avvicinamento della gambe, e di nuovo avrei piegato le ginocchia per far una sorta di leva e di nuovo cercare di saltare oltre l'oggetto, fino al quinto ed ultimo ostacolo. Avrei evitato di rallentare alla vista degli ostacoli per approfittare anche dell'energia ricavata dalla corsa nel superamento degli stessi, pensando che unire la potenza delle gambe a quell'energia accumulata mi avrebbe consentito di saltare più in alto. Avrei anche cercato di coordinare il movimento fisico ad una corretta respirazione, conscia del fatto che questa mi avrebbe aiutata enormemente nella gestione delle energie. Pertanto, già dal primo scatto di partenza avrei tentato di respirare aspirando dal naso ed espirando dalla bocca aprendola in una piccola fessura essenziale alla sola fuoriuscita dell'aria, cercando di mantenere in tale attività un ritmo costante. Inoltre, essendo tutti e cinque gli ostacoli di altezze diverse, ad ogni salto avrei piegato un poco di più le ginocchia ed avrei cercato di incanalare nelle gambe una forza e potenza crescente, fino al quinto che avrebbe richiesto il massimo delle mie capacità. Terminata quella prima fase, il formicolio che percorrevano entrambe le gambe in lunghezza sarebbe stato impossibile da ignorare, ma avrei tentato in tutti i modi di mantenere la mente lucida e focalizzata solo sull'esercizio, determinata a terminarlo qualunque fosse il costo. Non ci sarebbe stata sensazione più o meno dolorosa in grado di fermarmi, una volta partita avrei cercato di rimuovere ogni ostacolo mentale dalla mia testa e mi sarei fermata solo tornata alla bandierina verde.
A quel punto avrei continuato a correre fino al raggiungimento della piramide in legno. Avrei osservato la fune che magicamente era sospesa in aria a pochi centimetri di distanza dal suolo e senza esitazione avrei intrapreso la scalata. Avrei impugnato la fune saldamente prima con la mano destra, poi con la sinistra, dopodiché, dopo una leggera pressione esercitata per accertarne la stabilità, avrei posizionato il piede destro su quella superficie inclinata, cercando di non scivolare e tenere ben saldo l'arto; quindi, acquisita confidenza, avrei portato anche il sinistro sul legno ed avrei iniziato a far lavorare i bicipiti nel sostenermi e cercando anche di far leva su fianchi e gambe nello slancio necessario a cercare di portare, prima la mano destra e poi la sinistra, sempre distanziate tra loro una ventina di centimetri, più in alto. Avrei cercato di alternare i movimenti con costanza: avrei iniziato, come dal primo approccio con la fune, con la mano destra, poi avrei accompagnato il corrispettivo piede nell'esecuzione di un passo, quindi avrei proseguito con lasciare la fune per un punto più alto con la mano sinistra, seguita dal rimanente piede. Così, fino al raggiungimento della cima, cercando sempre ad ogni lasciata e ripresa di fune di aggrapparla con forza e decisione, nonostante già dopo i primi momenti avrebbero cominciato a bruciare un poco, e anche coi piedi avrei tentato di mantenere, ad ogni passo, la stabilità e l'equilibrio, cercando di sconfiggere l'eventualità di una scivolata compiendo ogni movimento, sebbene energicamente, con una certa cautela, provando a non eseguire movimenti bruschi bensì a poggiare la pianta del piede sempre in maniera salda e accurata. Sostanzialmente avrei fatto notevole forza sulle gambe ma, al momento dell'appoggio sul suolo, avrei allentato la velocità e la forza e avrei prestato attenzione. Anche durante questa fase avrei tentato di coordinare la respirazione come dal principio di quell'esercitazione. Con l'andare avanti sarebbe stato sempre più complicato, poiché la fatica sarebbe aumentata e di conseguenza lo stesso avrebbe fatto l'istinto di prendere grandi boccate d'aria. Ma questo avrebbe invalidato tutti gli sforzi precedenti e avrebbe solamente aumentato i miei battiti, che invece sarebbe stato importante tenere sotto controllo. Perciò, nonostante le pulsioni inevitabili che si sarebbero fatte vive con l'avanzare del tempo e degli sforzi, avrei cercato di rimanere costante e determinata, decisa a controllare a pieno il mio corpo e ad utilizzarlo nella maniera più idonea. Arrivata in cima avrei abbandonato la fune solo dopo aver messo i piedi bene a terra e aver avuto la sensazione di essere sicura abbastanza da poter fare affidamento su di loro. Inoltre l'avrei abbandonata partendo prima dalla mano destra, poi mi sarei piegata leggermente in avanti per acquisire una postura che in quella circostanza mi conferisse maggiore equilibrio e solo ad allora avrei portato a me anche la mano sinistra. Quindi mi sarei completamente appoggiata con la schiena alla seconda parte inclinata della piramide, che, stavolta senza sforzi, mi avrebbe portata a terra. Avrei evitato di toccare coi palmi delle mani la superficie, poiché avrei esercitato ulteriore attrito e, dal momento che già dopo tutto il lavoro con la fune avrebbero acquisito un colorito tendente al rosso, sarebbe stato meglio concedergli un po' di "riposo", ma soprattutto d'aria. Avrei approfittato di quei pochi istanti in discesa di "riposo" per riprendere qualche energia e respirare a fondo. Nel giro di poco mi sarei trovata nuovamente coi piedi sul campo, schiena dritta e le gambe piegate, per un miglior atterraggio; mi sarei poi eretta e, come all'inizio, con le braccia piegate lungo i fianchi avrei ripreso a correre, cercando di alternare i movimenti delle gambe a quelli delle braccia con armonia. Avrei tentato di nuovo di procedere ad una velocità crescente, poi, superata la prima curva dell'ovale, avrei trovato di fronte a me la fune sui arrampicarmi per raggiungere la Pluffa.
Pertanto, ad una distanza ravvicinata dalla fune (circa dieci centimetri) mi sarei fermata con un impercettibile salto a cui avrei abbinato l'unione delle gambe, poi avrei cercato di sfruttare l'atterraggio per piegare le stesse, avvicinando di molto polpacci e cosce, e subito sarei saltata di nuovo verso la fune, per coprire i pochi centimetri di distanza che rimanevano tra noi, cercando, come poco prima, di unire l'energia ricavata dalla corsa effettuata per arrivare lì alla forza posta nelle gambe. Avrei cercato di incanalare tutta la mia energia nei muscoli delle gambe, per poter ottenere il salto più alto nelle mie capacità. Contemporaneamente alla loro distensione legata all'inizio del salto, avrei alzato le braccia verso il cielo, anch'esse inclinate verso la corda e, raggiunta l'altezza massima, avrei cercato con le mani di afferrare la fune con quanta più forza e decisione avrei potuto. A quel punto, avrei cercato di riporre la massima potenza nei muscoli della braccia, deputati al mantenimento del resto del corpo appeso a quella fune, cercando di aiutarmi con le gambe. Infatti, appena presa la corda tra le mani, (che avrei afferrato tenendo la mano destra una quindicina di centimetri al di sopra della sinista) avrei nuovamente provato ad incanalare forza nei quadricipiti, cercando di portarli fino al petto ed anche i piedi avrebbero avuto un ruolo cruciale; avanzare solo con le braccia avrebbe richiesto uno sforzo di molto maggiore, perciò sarebbe stato essenziale coordinare tutte le parti del mio corpo. Avrei fatto sì che la fune toccasse il dorso del piede destro, mentre avrei posto la pianta del sinistro esattamente sopra quella stessa porzione di fune. La spinta coi quadricipiti verso il petto, una volta aggrappata la fune, mi avrebbe aiutata a darmi la giusta spinta, mentre il tenere i piedi così mi avrebbe agevolata nell'avanzata verso l'alto. Infatti, nel proseguire, avrei di nuovo esercitato forza portando le gambe al petto e contemporaneamente spostato le mani (prima la destra poi la sinistra), sempre un po' più su, ed i piedi, anziché agitarsi nel vuoto causando un ulteriore sforzo, avrebbero dovuto semplicemente "scivolare" in alto, seguendo il resto del corpo e avendo come punto di riferimento per la salita la fune che avrei posto tra loro. Avrei ripetuto quei movimenti per la salita cercando sempre di mantenermi costante ed armoniosa, facendo il possibile per bilanciare la fatica senza che pesasse su una sola parte del mio corpo e cercando di equilibrare anche la forza ed il suo dosaggio, dandone il giusto quantitativo ad ogni muscolo, provando a non esagerare né, ancor meno, a sottovalutarne la necessità. Quando sarei arrivata vicina abbastanza alla Pluffa avrei lasciato la corda con il braccio destro, riponendo maggior forza nel sinistro che ora doveva sorreggermi da solo, e l'avrei presa. Poi, il più rapidamente possibile, mi sarei voltata verso gli anelli e, senza esitazione, avrei piegato il braccio e avrei riposto le mie energie nuovamente nel bicipite; avrei dispiegato il braccio rapidamente, cercando di metterci tutta l'energia che avevo, quindi con lo scatto più rapido nelle mie possibilità avrei tirato la Pluffa mirando all'anello posto al centro.
Quindi avrei posto nuovamente la mano destra sulla fune e, distese le gambe, avrei proseguito scendendo dalla corda dispiegando poco a poco le mani fino a quando, a terra, l'avrei definitivamente lasciata. Coi piedi a terra mi sarei concessa qualche secondo per riprendere fiato; quell'esercizio sarebbe stato probabilmente quello che il mio fisico avrebbe accusato di più, poiché mentre prima avevo avuto la piramide su cui appoggiarmi, qui tutto il corpo si era ritrovato sospeso. Avrei sempre e comunque cercato di mantenere una respirazione adeguata, ma l'accumulo di tutta quella fatica, sommata a quella calda giornata avrebbe probabilmente prodotto, a quel punto, una profusa sudorazione, pertanto sarebbe stato bene prendermi qualche attimo prima dello scatto finale. Sarebbe stata questione di pochi secondi; tempo sufficiente a recuperare qualche energia, ma che non eccedesse in modo tale da compromettere la prova. Troppa esitazione, infatti, avrebbe avuto l'esito opposto: invece di riposare, quella prolungata inattività avrebbe finito con il rivelare a pieno i dolori della fatica per il momento nascosti dall'adrenalina. Quindi, dopo quei pochi attimi cruciali di ripresa, avrei proseguito.
Avrei ripreso a correre fino al raggiungimento della seconda struttura in legno. Giunta di fronte ad essa, avrei disteso le braccia fino ad afferrare con entrambe le mani il primo piolo, poi avrei piegato sia le braccia sia le gambe e, mantenendo la presa sul piolo solo con la sinistra, avrei sbilanciato il corpo verso avanti, cercando di portare su il busto e far leva tanto sui bicipiti quanto sui quadricipiti, fino a tentare di afferrare il successivo piolo distendendo il braccio libero da prese. Avrei cercato di fare sempre gli stessi movimenti, ancora una volta per un fondamentale discorso di armonia ma anche di equilibrio. L'unica differenza sarebbe stata nel braccio che sorreggeva; se avessi iniziato con il sinistro che teneva il piolo ed il destro che avanzava verso il successivo, avrei proseguito mantenendomi con il destro e portando invece il sinistro verso il terzo piolo, e così fino al raggiungimento dell'ultimo, al quale mi sarei infine aggrappata con entrambe le mani. Avrei poi appoggiato nuovamente i piedi a terra, lasciato la presa e proseguito.
Avrei quindi ripreso ripreso a correre fino al raggiungimento del primo palo e l'inizio della corda che lo legava ad un secondo palo distante due metri e mezzo da lì. Quindi mi sarei posta dando le spalle al palo successivo, avrei disteso ancora una volta le braccia fino ad afferrare la corda e, dopo avrei piegato le gambe. Questo poiché facendo così, nella successiva loro re-distensione, avrei potuto darmi una spinta tale da portare le cosce fino al petto, mentre avrei intrecciato i polpacci in modo tale da toccare la stessa piccola parte di corda con il dorso del piede sinistro e la caviglia destra. Contemporaneamente all'avvicinarsi delle gambe al petto avrei disteso le braccia in modo da avanzare, sempre cercando di portare prima la mano destra poi la sinistra. Avrei cercato di mantenermi con quanta più forza non avessi; nonostante a quel punto sarei stata sicuramente provata, avrei cercato di impiegarne più di quanto non avessi fatto prima di allora, perché avrei capito che quell'esercizio mi richiedeva molta più fatica, in quanto mi sarei ritrovata in una posizione anomala e con la testa che, per quanto avrei tentato di forzare il collo e per tenerla sollevata, con lo sguardo verso l'obiettivo, sarebbe comunque risultata un poco verso il basso. Pertanto avrei cercato di incanalare tutto ciò che mi rimaneva in corpo e nello spirito in quegli ultimi minuti di esercizio, sarei stata attenta a non perdere mai l'equilibrio e a bilanciare quindi adeguatamente il peso su tutta la corda, senza che nessuna parte provasse a prendermi troppo spazio né troppo poco. Avrei cercato sempre di tenermi saldamente, nonostante a quel punto le mani avrebbero sicuramente cominciato a farmi male. Inoltre avrei continuamente fatto scivolare i piedi che tenevano la fune tra loro, permettendo alle gambe di arrivarmi in petto, e avrei usato questa spinta per ri-allontanare il petto dalle stesse così da permettere alle braccia di agguantare nuove, più distanti, porzioni di corda. Non avrei voluto andare di fretta, poiché movimenti affrettati avrebbero minato la mia concentrazione. Mi sarei presa il tempo necessario, certo avrei tenuto conto del fatto che quella posizione non sarebbe stato possibile mantenerla a lungo, ma avrei evitato di farmi prendere dall'ansia del dovermi sbrigare, per poter cadenzare ogni singolo movimento, fino a quando non avrei finalmente percorso la corda in tutta la sua lunghezza. Arrivata al secondo palo, avrei mantenuto la presa salda sulla corda con mani e braccia, mentre avrei lasciato cader giù le gambe e, una volta coi piedi sul suolo, avrei lasciato completamente la fune, piegato le gambe per atterrare senza cadere, e di nuovo mi sarei messa in una posizione eretta. Quindi mi sarei voltata verso quello che era stato l'inizio e, con gli occhi puntati sulla bandierina verde, avrei cercato di mantenere ancora una volta la fermezza mentale, mi sarei imposta di non abbassare il grado di concentrazione proprio in quel momento e, proprio per evitare ogni sorta di pensiero di vittoria o comunque di felicità per aver in qualche modo raggiunto il termine della prova, avrei evitato esitazioni. Avrei assunto un'ultima volta una posizione che mi consentisse di eseguire la corsa scattando, quindi avrei piegato le gambe e via, di nuovo verso una successiva meta, e avrei nuovamente piegato le braccia in modo da coordinarle in quei movimenti. Avrei lasciato che la mia testa producesse pensieri solo relative al fatto che ero vicina all'ultima meta, non per gioire, bensì per darmi lo sprint finale che aiutasse il mio corpo a non cedere ma anzi a dare tutto ciò che gli rimaneva in forza, energia e determinazione e impiegarlo in quell'ultimo scatto senza remore. Quello che si dice fare il tutto per tutto!
Al termine, finalmente mi sarei concessa una vera pausa: sicuramente paonazza dalla fatica e col fiato corto, mi sarei seduta sul prato e mi sarei tolta un po' di sudore dalla fronte con la mano, con la probabile sensazione di avere il cuore in gola.
|