Hogwarts: Harry Potter Gioco di Ruolo

Smells like teen spirit, Privata

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view post Posted on 18/1/2014, 05:38
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Lo sguardo di Jelonek ricambiava quello di una delle tante foto che costellavano le pagine della luccicante rivista. Il suo gemello cartaceo lo fissava, un po' truce, un po' beffardo, mentre la riproduzione di Eloise lottava tra le sue braccia, per ottenere il primo piano. Oh, lei si sarebbe pavoneggiata per mesi, non appena le avesse mostrato le immagini mobili che la immortalavano. La presenza della sua signora nella foto voleva dire una cosa (ma ne avrebbe significate molte altre): si trattava di una delle poche, se non dell'unica, testimonianza della sua esistenza nel Dopo. Aveva sempre pensato che la redazione del Settimanale delle Streghe fosse ampiamente sottovalutata e aveva avuto ragione: in fondo, avevano messo le mani su un reperto. Quella foto era senza dubbio custodita in un qualche archivio in un polveroso sotterraneo in Germania, in una cartella di informazioni riservate sfuggita miracolosamente alle fiamme di un caminetto. Tutte le altre fotografie incluse nel giornale appartenevano al Prima Di. Facevano vedere l'uomo che era stato, con espressioni che non avevano mai più visitato il suo viso. Erano secoli che non le riguardava, erano secoli che aveva rinnegato la loro stessa esistenza, eppure eccole lì. Avevano intrappolato un fantasma sulla cellulosa, lo avevano fatto muovere con quella buffa pozione che usano i fotografi magici, e ora, a qualcuno intento a sfogliare le pagine, poteva quasi sembrare che fosse ancora vivo.
... Ma i suoi occhi rimanevano fissi sull'uomo ombra che reggeva la balestra. La sua figura era stata ripulita, di questo era sicuro: quella foto doveva essere stata scattata da dipendenti ministeriali che sputacchiavano ordini in tedesco, qualche settimana al massimo dopo la sua scarcerazione. Quando il suo corpo non aveva un solo centimetro che non continuasse a versare sangue. Jelonek continuava a osservare gli occhi che sembravano spegnere il brio della pagina, adombrare le parole così falsamente frivole rivolte alla Giornalista - false nel tono, appena non-vere, talvolta, nel contenuto.
Sono davvero così? È questo che vedono?
(Eppure, dovresti saperlo.)

"Congratulazioni anche per la recita..."



Avvertì le dita di Evey sfiorare le sue e si riscosse. Sollevò lo sguardo su di lei, cercando nella sua mente qualcosa che potesse assomigliare a uno specchio. Non era la prima volta che lei lo guardava come se non lo avesse mai visto prima. Quella proiezione si faceva sempre più dettagliata. A ogni pericolosa vicinanza, a ogni contatto, lei scorgeva qualche ruga in più, qualche punta di barba fuori posto, qualche inedito stralcio di tenebra tra le sue palpebre. Perché la cosa sembrava farle bruciare quella distanza? Perché non se n'era andata?

-Nessuna recita- parlò imitando al meglio delle sue possibilità lo sguardo del suo sosia versione "Prima Di" -Daisy Hall mi ispira una grande fiducia. Le ho regalato la mia bandana-

In realtà, se n'era pentito. Il suo outfit bandito-piratesco con il tricorno non aveva più avuto lo stesso mordente. Ma a caval donato non si guarda in bocca; questo doveva significare forse che avrebbe potuto riprendersela? Altrimenti, doveva per forza esistere un altro estratto di saggezza popolare che lo potesse aiutare. Esisteva sempre.

-Nessuno risalirà mai alla tua vera identità- osservò, indicando il nome "Evey Jepperson" fare bella mostra di sè sulla carta -Nemmeno le trappole mentali di Daisy Hall sono riuscite a minare la mia discrezione-

Sembrava molto importante precisarlo. Ma se la Posta del Cuore non ingannava, e di certo non lo faceva, quello non era tutto.

-La tua virtù è al sicuro- annuì incoraggiante, la fronte leggermente aggrottata in un'aria grave. Non aveva la più pallida idea di cosa significasse, ma qualcosa gli suggeriva che le avrebbe fatto piacere.

Il pollice di Jelonek sfiorò la superficie liscia della pagina, appena al di sotto della sua fotografia. Non poteva proprio resistere: avrebbe passato l'intera giornata con la rivista attaccata alla faccia. Il profumo di edicola e piume di gufo produceva assuefazione.
L'altra mano si chiuse su quella di lei, facendola praticamente scomparire, tanta era la sproporzione tra le due.

-Ma Mandy mi ucciderà comunque- ridacchiò, passandosi la lingua sul labbro inferiore -Altri mi vorranno morto, dopo questo. Tutti mi vorranno lontano da qui, probabilmente-

Del resto, si poteva chiedere al Caos di scegliere dove agire? Implorare una valanga di risparmiare un gruppetto di alberi? A chi diavolo importava?
(Dovrebbe importare a te. Dovresti essere morto, ma ora la tua faccia è spiattellata sui giornali. Pensi che a loro piacerà?)
Da quando i serissimi Schultz, Schwartz, Hansel e Gretel del Ministero della Magia tedesco leggono il Settimanale delle Streghe inglese? Io gliel'ho sempre consigliato, questo sì, ma nel mio tedesco stentato, riempendo i buchi linguistici con i gesti. A giudicare dalle reazioni, hanno capito tutt'altro.
I pensieri di Evey lo ponevano chiaramente in rivalità con Zeboim, l'ardita volpe che si era guadagnata il titolo di "indiscusso conforto". Jelonek non aveva mai compreso la competizione come stato d'animo verso qualcun altro; per questo, in genere preferiva arrivare preventivamente ultimo, in modo da lasciar rilassare gli altri concorrenti.
In fondo, cosa avrebbe mai potuto dare a Evey, che Zeboim non le avesse già offerto? Lui era appena stato brutalmente rapinato da un gufo postino.

-Ho letto molte riviste. Sono abbonato, per di più-

Altra cruciale precisazione. Molto serio, avvicinò appena il viso al suo e si schiarì la voce.

-Se vuoi, posso morderti anche io. Avrebbe un valore... terapettico-

La fissò battendo le palpebre con solennità. Il conflitto con Lily Luna Potter non si era risolto perché per quanto la Professoressa fosse brillante, non aveva affrontato le sue stesse letture erudite. In parole povere, nessuno a parte lui avrebbe capito che se Zeboim la faceva stare meglio, non aveva senso gareggiare per diventare migliori di lei; bisognava diventare lei.
Jelonek assottigliò gli occhi e accennò un flash di canini, lanciandosi nella sua più riuscita imitazione della volpe.


J. F.
 
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- Giusto. Di Evey Jepperson Portiere di Serpeverde ce ne sono addirittura dodici. -
Non trattenne il ghigno beffardo che le si dipinse sul volto, del tutto fuoriluogo, del tutto estraneo, paradossale se confrontato a quei segni rossi sulla sua gola. Un ghigno che nacque e basta. La sua virtù era proprio salva.
[Oppure è morta nel momento in cui hai preso il suo sangue. E questi sono solamente residui, scomodi pezzi da trascinare dietro per fingere che te ne importi qualcosa.]
- Nessuno sospetterà nulla. - continuò, ironica.
Sotto la mano di lui, il pollice si mosse per carezzargli il palmo che la ricopriva.
Distolse lo sguardo e lo ripose sulle pagine dove, quasi ovunque, Jelonek appariva con quella sua solita aria tronfia e sperduta al contempo. Sarebbe stato il caso di prenderlo in giro per quelle espressioni e la scarsa fotogenia dimostrata, ma fu qualcos'altro che attirò la sua attenzione.
Tutti mi vorranno lontano da qui.
Non sapeva bene cosa le provocasse quella prospettiva. Sentiva come se qualcuno la stesse strappando dalla sua linea temporale, ricucendola in una sequenza sbagliata per cui gli eventi risultavano completamente stravolti o capovolti. Pochi minuti prima era stata un Tassorosso, aveva sorriso come una bambina, si era deliziata del dono ricevuto. Qualche attimo dopo, i suoi denti erano nella carne di lui, il corpo sul suo, in un contatto e una vicinanza mai avuta con nessuno. Ora, Evey fissava gli articoli senza vederli, reagendo come se lui non fosse che un estraneo conosciuto solamente quel pomeriggio.
[Non è così, vero? Non è per questo che fissi le pagine e non lui. La tua mano è ancora sotto la sua. La stai carezzando.]
- Io no. - rispose quindi, voltandosi di nuovo a guardarlo. Io non ti vorrei lontano da qui.
Di certo non poteva avere un qualche potere decisionale al riguardo, al contrario della Preside o di chiunque altro fosse coinvolto (Chi?), ma le sembrava importante che lui sapesse. Specie se, con chiunque altro, dopo quel che era appena successo, Evey sarebbe fuggita a gambe levate, ma con Jelonek...
Da Jelonek lei non poteva scappare.
- Chi altro vorrebbe allontanarti? Non hai detto nulla di più stupido del solito. -
A meno che, chiunque ti voglia lontano da qui, non si possa seccare di vedere la tua faccia su una rivista, dove tutta la Gran Bretagna possa vederti. E perchè prendersi questo disturbo?
Inclinò appena la testa di lato, lasciando scorrere quei pensieri senza preoccuparsene. C'erano ancora così tante cose che non sapeva, in quella cronologia di eventi ricucita in una sequenza temporale sbagliata, che Evey era sicura non sarebbe mai riuscita a sapere nemmeno la metà delle cose che macchinavano dietro agli occhi infossati davanti a lei. Volerlo morto per quella spazzatura scritta da Daisy Hall?
O per la faccia che compare una pagina si e l'altra pure?
Il collo le formicolò davanti a quella ridicola proposta. Il suo corpo fu percorso da un brivido impercettibile mentre, istintivamente, si domandava cosa si poteva provare ad essere la vittima, colei il cui sangue veniva preso, senza potervi porre rimedio. Sentire i suoi denti dentro il proprio flusso vitale, sentirle risucchiare via ciò che lei per prima aveva sottratto, mentre lui la intrappolava nello stesso modo in cui lei aveva intrappolato lui.
Uno scambio equo.
Il blu negli occhi di Evey ebbe un brillio, qualcosa di molto simile alla luce selvaggia che li aveva animati per tutto il tempo in cui lei era emersa si era nutrita.

I want to live in fire
With all the taste I desire


Distolse lo sguardo e lo pose sulla foto di Edward Moody seduto su delle scale, inspiegabilmente sconsolato (forse era arrivata una missiva estera e il Ministro non sapeva come arrangiarsi senza la sua burattinaia a manovrarlo).
- Non voglio parlare di questo. - tagliò corto, senza nemmeno correggergli l'errore. Voltò pagina e s'imbattè nell'articolo dedicato all'alcool; il Settimanale delle Streghe sembrava molto attento alle questioni delicate, specie se rivolto ad un pubblico di minori. Evey ne fu quasi commossa; ogni argomento andava bene pur di non pensare a quello che era successo. Non aveva nessuna voglia di parlarne.
- Sei arrivato al Ballo con una bottiglia di assenzio? - A proposito di ciò che era appena successo.
Corrugò le sopracciglia e lo guardò; questa le era nuova. Quando Jelonek era arrivato, Evey era si era già allontanata dal ballo; non potè fare a meno di chiedersi cosa sarebbe successo se fosse rimasta e lo avesse visto sfoggiare quella bottiglia. Nulla di positivo, fu l'unica risposta che le venne in mente, se già in quel momento la sua disapprovazione risultava palpabile a livello di occhiate, di pensieri, a lei, a Zeboim e alle targhette alle sue spalle (che continuavano ad urlare).
Eppure non aveva nessuna voglia di disapprovare. Di nuovo quella sequenza temporale ricucita male, Evey non sentiva alcuna utilità forza di rimproverarglielo. Sapeva già da solo che non era una cosa che le sarebbe piaciuta, potevano gioire entrambi che, all'epoca, lei non l'avesse vista.
Ce l'hai ancora dietro? Potrei versartela addosso prima di berti, la prossima volta. O potresti farlo tu.
Distolse lo sguardo, infastidita da quei pensieri che le attraversavano improvvisamente il cervello, come saette appena visibili nella notte apparentemente serena. Detestava non averne il controllo, come se Jelonek, offrendole il collo e il sangue, avesse aperto i cancelli a quei pensieri, a qualcosa che non era lei. Qualcosa che emergeva ogni volta che percepiva quell'odore di ferro o che vedeva quel colore vermiglio.
Il Drago. Un Drago a cui piaceva essere generoso, un Drago che sapeva con chi e come parlare, al di là di quel recinto, al di là di quel gazebo, ruggendo saette nel mezzo della notte apparentemente serena.

I'm not afraid to bleed,
but I will do it for you

 
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I'm the nightfall and wizard that summons thee
You're the blizzard that drapes my eyes



(Ora puoi fingerti sorpreso. Puoi fingere che non te l'aspettavi. Dovrebbe essere semplice: modella le labbra a ovale, allarga un po' gli occhi, distendi la fronte. )
Come spesso accadeva, Jelonek non seguì il suo stesso consiglio. Invece, lasciò che la rivista ricadesse morbidamente sulle sue ginocchia e si portò la mano ora libera al mento, dove fece scorrere le unghie corte e sformate sull'accenno di barba ribelle. Ovviamente, la sua uscita sulle persone che lo avrebbero voluto lontano da lì era stata casuale e pericolosa, almeno per le mire di dette persone - ma i loro piani erano implicitamente andati a monte nel momento in cui Mandy lo aveva presentato al Ballo con il suo vero nome. Il glorioso istante in cui Mandy aveva agito come se fosse lei stessa un'agente del Caos; il glorioso istante in cui lo aveva sinceramente, francamente, meravigliosamente sorpreso. Era stato un attimo, certo, ma vista la concentrazione di orecchie rilevanti in Sala Grande durante la dichiarazione, c'era da aspettarsi un'eco ridondante e duratura per quelle parole.
Era così raro che fosse Mandy ad accendere la miccia dei fuochi d'artificio. Era stata davvero fuori di sé, come forse non l'aveva mai vista.
Ma a un certo livello, Jelonek sentiva che Mandy lo aveva fatto proprio per apporre una data di scadenza alla sua permanenza a Hogwarts. Si trovava nella condizione ideale per poterlo usare, rispedendolo al mittente come uno strumento difettoso una volta che era servito ai suoi scopi. Era chiaro che le rimpatriate non facessero per lei. Una delle sue indubbie specialità era quella di porre pietre su un sacco di cose e, soprattutto, un sacco di persone. Quella che aveva calcato su di lui si era rivelata un po' meno pesante, ma la Preside di Hogwarts era già alla ricerca di una sostituta. Un macigno, da sotto il quale lui non avrebbe mai più potuto tornare a tormentarla.
Bé, ho imparato a sgusciare da sotto le pietre, ormai. Ho imparato ad avere un piano.

-Il mio incarico a Hogwarts doveva essere molto riservato- raccontò, ed era un po' come recitare una filastrocca, si poteva evitare di pensare -Dovevo venire qui con un falso nome. Era la mia parte preferita, veramente: volevo farmi chiamare Robustus Peacocks-

Stirò le labbra e scosse leggermente la testa, palesemente amareggiato. I nomi che iniziavano per "R" avevano un'aura di virilità impareggiabile.

-Tra le varie condizioni della mia.... scarcerazione-

(Sei ancora lì DENTRO. )

-... C'era l'annullamento della mia identità. Da qualche parte, in Irlanda, c'è una tomba con il mio nome e probabilmente qualche fiore rinsecchito-

Era anche fin troppo ottimistica come prospettiva.

-A mia madre potrebbe venire un colpo a leggere questa roba- ridacchiò, scacciando qualsiasi pensiero al riguardo. Uno dei tanti poteri speciali che aveva acquisito nel suo Dopo era quello di considerarsi come un esserino che qualcuno - probabilmente una cicogna - aveva trovato sotto un cavolo. Quelli che nei suoi ricordi confusionari e lacunosi etichettava erroneamente come "genitori" erano soltanto due coniugi che una notte avevano sognato di avere un figlio, un sogno piuttosto insipido e non particolarmente rilevante, ma che poi si erano risvegliati, andando avanti con le loro vite.

-Era meglio così. Quello che mi hanno fatto non è propriamente legale ed è altamente rischioso che io possieda una bocca e qualche traccia di memoria a cui dare voce. Hanno acconsentito a lasciarmi andare a condizione che non riprendessi i rapporti con nessuna delle mie vecchie conoscenze. Non che ne avessi poi molte, in effetti. Hanno inviato Gufi ai miei genitori e a Mandy. Lei non ci ha creduto-

Perché il senso di colpa l'avrebbe uccisa, e lei è così brava a negare qualsiasi cosa rischi di scalfirla.
Si strinse nelle spalle.

-Alla fine le hanno detto la verità perché, sai... lei è così potente e autorevole. Può tirare fili un po' dove vuole-

Ha più fili che mani, in effetti.
L'angolo della bocca si arricciò, mentre la fossetta faceva capolino sulla pelle ispida della sua guancia. Evey era così brava a fingere di essere come Valerius Von Valentine. Anche lui era apparso scandalizzato dalla bottiglia di assenzio in un modo così... impeccabile. Come se l'alcolico verde fosse stato in assoluto l'unica macchia oscura in una vita scandita da misurati ondeggiamenti di ciuffi biondi. E dire che lui stesso aveva indossato una bella maschera lucente, sul suo volto diafano e sulle sue stesse intenzioni - "uccidere per proteggere, odiare per amare"... c'era ancora chi ci credeva? Un movente che aveva surclassato quello della drammatica vendetta, diventando l'indiscussa moda tra gli arruolati, a quanto pareva. Solo gli Auror non avevano questi problemi di autostima. Che ironia.
Nel non essere realmente stomacati dall'assenzio, comunque, loro avevano davvero qualcosa in comune. Tutti l'avevano.

-Ne regalerò una cassa a Mandy per Natale. Di assenzio, dico. O per il suo compleanno. Non sono certo di cosa venga prima-

(Oh, sì che lo sei.)
Jelonek piegò la testa da un lato. Senza accorgersene, la sua mano le aveva tirato piano il braccio dalla sua parte, avvicinandola a lui. Guardò Evey al di sopra della spalla, non potendo evitare di mordersi il labbro inferiore, come se fosse un dispetto rivolto a lei.

-Magari riesco a rimediare una bottiglia anche per questo ballo. Se ho delle tasche abbastanza grandi-

L'unico modo per superare il trauma è rivivere il trauma.
Ma lei sapeva quelle cose, le sapeva già. Gli aveva chiuso gli occhi, prima, ributtandolo di peso nella Cella Grigia, facendogli assaporare il sentore unico della polvere mischiata al suo sangue, e i muscoli che si tendevano, e il dolore immaginario che era soltanto spasmodica attesa di qualcosa di molto, molto reale. Poi, aveva voluto essere lei la mano con il pugnale. Aveva voluto assaporare il suo sangue. Lo aveva fatto solo per se stessa.

I'm thy sorrow and vein of obscurity
You're the dagger that cuts.



Con quello, lui si sentiva esageratamente a suo agio. Con quello, poteva averci a che fare.
(I muscoli si erano rilassati. Era quasi fuori di lì... Ahah, no, certo che no. Però, poteva quasi crederci. )
Le toccò la punta del naso, vanificando del tutto la sua espressione seria e vagamente disapprovante. Il punto debole della sua maschera argentata. Il punto più Tassorosso di Evey Atkinson, probabilmente.
Probabilmente.

J. F.
 
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Lo osservò senza dire una parola. Non che non trovasse qualcosa da dire, di osservazioni da fare ne avrebbe avute da fare a bizzeffe, ma in quel momento non aveva voglia di parlarne. Avrebbe richiesto troppa energia stupirsi del fatto che Jelonek avrebbe dovuto essere morto, che tutti, all'infuori di Hogwarts, lo pensavano morto, chiedersi, per l'ennesima volta, se non l'avesse sottovalutato, lui e la situazione in cui si trovava, riprendere a farsi domande su domande...
Non ne hai diritto. Ti sei nutrita di lui.
Da qualche parte, in Irlanda, c'era una tomba con il suo nome.
Si chiese come si sarebbe comportata al posto suo. Non poter scrivere o vedere i nonni sarebbe stata una tortura, doversi sempre nascondere per evitare di far sapere che quella lapide fosse stata erroneamente innalzata per un fantasma ancora vivo. Evey era una debole, di sicuro, prima o poi, sarebbe tornata a casa, rivelando la verità alla sua famiglia.
No, non lo faresti. Saresti libera, senza doverti più preoccupare di niente e nessuno, senza legami ad incatenarti ad una realtà che ti è troppo di peso. Non faresti sapere a nessuno che sei ancora viva.
- Se sei morto... - riflettè, corrugando appena le sopracciglia -... come mai hai ancora tutti i tuoi galeoni? - fu l'unica domanda che le venne da fare. Il resto non le interessava.
- Insomma, non dovresti essere povero di canna? - era una cosa che la infastidiva parecchio, vederlo spendere e spandere per cose di poco conto, come orribili mocassini o un gufo rapinatore. E poi, com'era possibile che nessuno si fosse accorto dei suoi movimenti bancari? Diamine, bisognava essere davvero discreti. Si augurò di diventarlo presto, era qualcosa che le sarebbe tornata utile. Specie per i movimenti bancari.
Alla fine le hanno detto la verità perché, sai... lei è così potente e autorevole. Può tirare fili un po' dove vuole.
Distolse lo sguardo e voltò un'altra pagina. Kedavra Mandylion poteva tirare i fili dove voleva, eppure...
Sembrava non potesse tirarli nel suo stesso castello. Non come avrebbe voluto lei (o io non sarei qui con te, non avrei bevuto di nuovo, non ti avrei toccato, non ti avrei baciato), qualcosa continuava a sfuggirle, a farla apparire terribilmente umana, come tutti loro.
Quel pensiero ebbe lo straordinario, invidiabile effetto di farla sentire meglio. Un quasi semi-sorriso le si dipinse sul volto.
Si voltò di nuovo su di lui quando persistette nella sua battuta su assenzio e balli. Evey gli dedicò un'occhiata fredda e al contempo furiosa. Non ci trovava nulla da ridere, non ancora. Era troppo presto e lui non doveva azzardarsi a ripetere quella mediocre scenetta. Non con lei. Poteva inviare a Kedavra tutte le bottiglie d'assenzio presenti in Gran Bretagna, sarebbe stato un bene, ma lei sola. Avevano tutti pagato abbastanza e Evey non aveva voglia di scherzarci così presto.
Gli bloccò il polso con uno scatto improvviso quando lui si protese a toccarle il naso.
- Smettila. - sibilò, senza distogliere lo sguardo.
Si era avvicinato tanto, l'aveva avvicinata tanto (si era avvicinata tanto) da percepirlo sovrastante su di lei. Sostenne il suo sguardo quanto più duramente poteva, ma sapeva che lui vedeva la sua tentazione. Si chiese se non potesse percepire il profumo del suo sangue attraverso lei, così terribilmente vicino e invitante. Le sarebbe bastato spostare lo sguardo appena più sotto dei suoi occhi, sulla vena squarciata che l'aveva nutrita, sul cremisi denso che colava lungo la gola di Jelonek. La rabbia per la sua indelicatezza non aiutava affatto, anzi, sembrava darle una motivazione in più per... per...
No, basta.
La presa sul suo polso era diventata ferrea, senza che Evey nemmeno vi avesse fatto caso. Percepiva le vene di Jelonek sotto il suo pollice, pulsanti, vive, calde... chissà se il sangue dal suo polso era piacevole quanto quello della sua gola...
No, basta!
Avrebbe voluto lasciar andare quella mano con un gesto secco, quasi sprezzante (perchè quella rabbia?), ma l'unico risultato che ottenne fu quello di allentare la presa. Nemmeno per un istante i suoi occhi avevano abbandonato i suoi.
- Basta... - mormorò con voce bassa, sentendo che, di nuovo, la gola aveva preso ad arderle impietosamente, come se non bevesse da giorni e bramasse dissetarsi con un'unica, meravigliosa cosa.
Basta aveva detto, ma non era quello che intendeva. Non il suo corpo, non la sua fame, non la sua sete. Non con Jelonek così vicino, non con il suo respiro così caldo su di lei. Un brivido le percorse la schiena, Evey abbassò lo sguardo di nuovo alla ferita che la chiamava, invocando il suo nome a gran voce. Basta, diceva la sua testa, in una voce sempre più debole. Qualsiasi cosa Jelonek le stesse facendo, lui ed il suo sangue, doveva smetterla. Evey non voleva continuare, Evey non voleva...
Il suo sangue.
Il suo polso.
Il suo viso.

Continua...
Alzò lo sguardo su di lui, le labbra appena dischiuse, gli occhi brillanti. Lo lasciò volontariamente entrare, ancora ed ancora, lasciò che vedesse ciò che lui le stava causando, lui con la sua maledetta ferita. La presa sul suo polso aumentò, più ferrea di prima, come se Evey vi si stesse afferrando per metterlo in guardia, per imporgli di smetterla subito, qualsiasi cosa stesse facendo.
Come se lei stessa fosse alla ricerca di un appiglio, qualcosa a cui aggrapparsi disperatamente per porsi un freno.
Continua...

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This is the slowest dance
The dance of a thousand years
The dance of the frozen statues
Clinging together in tears



Se Jelonek non fosse stato Legilimens - oh, così tanti bei pensieri iniziavano in quel modo - avrebbe potuto arrampicarsi in mille interpretazioni per quella stretta sul suo polso che si faceva sempre più convulsa, quelle parole sputate fuori in un sussurro in bilico tra lo sprezzo e la prudenza. Se fosse stato in pieno Prima Di, avrebbe forse ritratto il braccio, scandalizzandosi per quell'aggressione immotivata.
Ma Jelonek era un Legilimens, qualcuno che si era lasciato il Prima Di alle spalle. Due sole certezze, più che sufficienti per definire e condannare una sottospecie di vita.
Ma J. F. non si sentiva affatto un condannato, con quei polpastrelli impressi nella carne, selvaggiamente artigliati nella ricerca del suo battito, delle sue pulsazioni - come se potessero dire qualcosa, a parte il fatto che il suo apparato circolatorio stesse funzionando più o meno a dovere.
Clap clap, complimenti.
Era come quando la damina si presentava al ballo con il vestito nuovo, i capelli costretti nell'acconciatura che aveva richiesto ore di preparazione, il trucco impeccabile, e incontrava il primo paio di occhi che la guardavano conciata a quel modo: era un po' come ricominciare tutto da capo, come riassettarsi dalla testa ai piedi, rifare la sfilata tra gli specchi di casa.
Con quelle dita attorcigliate al polso, Jelonek era costretto a prendere coscienza di ciò che stava succedendo nel suo corpo, e non nell'angolo che visitava più spesso con il pensiero, cioè il groviglio di sinapsi ballerine che gli trasmettevano puntualmente il dolore in tutti i lembi; no, doveva pensare al sangue che scorreva, poteva quasi sentire i recettori tattili di lei rabbrividire, sulle tenere falangi che lei aveva predisposto istintivamente a quel compito, e inevitabilmente pensava alle sue stesse arterie, che immaginava raggrinzite e ricoperte di polvere, infine al suo cuore - un muscolo sempre più stanco, che mai per un attimo aveva rinunciato a eseguire la sua monotona marcetta, ora intento a combattere le ragnatele e la siccità con una testardaggine sadica.
Davvero, amico... smettila.
Continuava a battere, e la cosa lo avrebbe messo a disagio, forse. Se fosse stato ancora in grado di provare qualcosa di simile.
("Se fosse stato ancora in grado di provare qualcosa di simile." Quanti brutti pensieri finivano in quel modo.)
Evey non stava controllando se era ancora vivo. Non avrebbe avuto motivo di dubitarne, anche se la sua analisi andava sempre più a fondo, esponendo sotto il riflettore del suo sguardo ogni più piccolo difetto, ogni più trascurabile stigmate dei peccati passati - quelli che aveva compiuto, quelli che aveva subito.
No, Evey era aggrappata a lui, ma la cosa aveva molto più a che fare con Lei, con la Vera Evey, che non con lui. Gli stava dicendo che era proprio quel battito, proprio quel sangue che circolava liberamente, a farla implorare un freno da mordere, una frusta che la disciplinasse.
Sentiva che era vivo e la cosa la rendeva una bestia assetata. Una valchiria indomabile, una forza distruttiva sul punto di prorompere, senza più alcun argine.
Eccola che si rotolava in quella strana Invidia, ecco che i suoi occhi fiammeggiavano con Ira, e la sua Gola riarsa reclamava il più sublime dei peccati. Era abituata agli smeraldi, e ora la povertà di quell'ossigeno asettico la stava soffocando.

This is the darkest fight
The fight of a thousand years
The pounding of blood
Through our veins
In our veins



Jelonek lasciò che il braccio rimanesse alla sua mercé, con le vene che ora riaffioravano sempre più visibili, sempre più vulnerabili, sempre più esposte. Le cicatrici sul suo polso sembravano riaprirsi, rievocando vecchi dolori, saettando nuove, seducenti agonie.
Lei aveva più forza nelle dita di quanto non credesse. Jelonek sapeva che c'erano delle parti in lui che
(no. No, non ci sono, non ci sono mai state, NO)
l'avrebbero portato a spezzarle le dita il polso il collo
con la stessa facilità con cui aveva versato il tè nelle coppe e se l'era portato alle labbra. Ma non era questione di facilità. L'avambraccio di Jelonek rimaneva abbandonato; quello che era stato un tentativo, uno di quei contatti ormai quasi decorativi in quel pomeriggio, si era rivelato una trappola, una tagliola che aveva reclamato la sua libertà - e la volontà di liberarsi non poteva esistere, non quando quella rete di sfrigolante dolore si sprigionava dal punto in cui la mano di Evey si era stretta, in una muta ricerca della fusione con la sua.
Con le sue vene. Le sue cicatrici. Il suo marciume.
La guardò negli occhi, scorgendovi il fiume di lava che sinuoso scendeva verso di lui. Per distruggerlo.

-Ho lavorato per il Ministero per quasi tre anni- la sua voce risuonava quasi normale, forse appena più bassa, mentre il suo sguardo non nascondeva una traccia di incuriosita fascinazione -Ho messo da parte qualcosa. Non è che abbia qualcuno da mantenere. Non ho neanche una casa-

E mangio molto poco.
Quello, però, sarebbe stato difficile da credere, dopo l'abbuffata ad Hogsmeade e la strage di biscottini Ali di Colomba o quel che erano. Si sbagliava: era facile anche parlare in quel modo. Perché lei gli stava lasciando aperte tutte le porte nella sua mente, così come lui le aveva mostrato tutte le sue cicatrici.
Perché vuoi che la smetta?

-Non sto facendo niente, Evey-

Non accennò al polso, alla sua presa, distruttiva e disperata come una richiesta di pietà che non era disposto ad ascoltare (chi, mai, prestava loro ascolto?). Lo scorrere difficoltoso del sangue sotto il suo pollice, l'allarme vago del suo sistema nervoso, erano già al centro dell'attenzione di entrambi.
Ma le pieghe, i vortici della sua mente... quelli erano ancora più attraenti, ancora più rossi.
(Perché vuoi che continui?)

-Quanto all'assenzio... Non saranno certo le sopracciglia inarcate della signorina Pimpirson a decidere il contenuto delle mie tasche-

Del resto, se fosse stata lei a decidere, sapevano entrambi come sarebbe finita.

J. F.
 
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Jelonek Fedoryen era un bastardo.
Un sadico bastardo che sapeva bene quel che faceva e fingeva di non saperlo affatto. Le sbatteva in faccia quell'innocenza e quella presunta ignoranza senza alcun pudore, voleva spingerla al limite e farsi prendere a schiaffi (o, più probabilmente) a morsi. Peccato che Evey non aveva nessuna voglia di dargliela vinta. Non così.
Strinse di nuovo il suo polso convulsamente, lanciandogli un'ultima, tagliente occhiata di avvertimento. I suoi occhi si abbassarono, un'ultima volta, a fissare la ferita che continuava a sanguinare. Forse avrebbe dovuto occuparsene, provare ad aiutarlo, ma non sapeva da che parte voltarsi con gli incantesimi curativi, e in ogni caso non aveva nessuna voglia di soccorrerlo.
E poi quel profumo era così buono...
- Lo sai. - sibilò, il volto vicino al suo. Se c'era una cosa che Evey Atkinson aveva capito, era che Jelonek Fedoryen non avesse affatto bisogno di porre delle domande. Gli bastava uno sguardo per ottenere le sue risposte.
Lo sguardo le cadde, di nuovo, sul vermiglio che inzuppava la parte alta della sua veste. Si protese appena, impercettibilmente, in avanti, attratta incontrollabilmente da quel profumo così intenso e così insistente nelle sue narici. Lo percorse, giungendo sopra alla sua fonte su cui si soffermò appena prima di volgere lo sguardo sul suo volto, verso l'alto. Lo osservò, di nuovo, soffermandosi su ogni singolo dettaglio: barba, labbra, naso, occhiaie, occhi, palpebre, ciglia, sopracciglia, fronte, ciuffi sparsi...
La sua mano lo lasciò andare, quasi sprezzante, mentre gli occhi tornavano ad incontrare i suoi, senza battere ciglio.
- Bene, allora il contenuto delle tasche del professore di Occlumanzia farà bene a stare lontano dalla signorina Jipperson. - aggiunse, inarcando un sopracciglio.
A meno che tu non voglia che te lo tiri dietro. Potresti esserne ricoperto, e non succedono belle cose a chi si ricopre d'assenzio se io sono presente. Ma di questo hai già avuto un'anticipazione, non è vero?
E non le era affatto servito dell'assenzio vero e proprio. Le era bastata ricordarlo, quella strana sensazione di rabbia e calore l'aveva indotta a percepire quel forte, alcolico odore di anice addosso a lui. Non sapeva cosa fosse stato o perchè, non aveva intenzione di porsi quella domanda tanto presto.
Si allontanò da lui quel che bastava perchè vi fossero quei pochi centimetri sufficienti a distanziarla dalla ferita, che le concedessero una tregua a quel profumo meraviglioso.
- Non vorrà puzzare d'anice per il resto della sua vita! - aggiunse, con tono sferzante e occhi appena socchiusi. Altro che crema pasticcera o vuote minacce di torte volanti. Jelonek non doveva azzardarsi ad avvicinarla con una singola goccia d'assenzio a meno di due metri.
Evey volse di nuovo la sua attenzione al Settimanale, la schiena rivolta al suo torace (che ricopriva solo a metà) e la mano ancora intrappolata sotto la sua, che ancora accarezzava, nascosta dalle sue stesse dita.
Finse di guardare lo Spotted, ma, dentro di lei, ancora imperversava la tempesta del rimorso e della confusione, della rabbia contro lui, residuo della precedente ferocia e della costante paura che stava provando nei confronti di se stessa, unico mezzo di autopunizione che avrebbe potuto trovare.
- Cos'è che ti diverte tanto? - disse improvvisamente, volgendo ancora lo sguardo su di lui e fissandolo senza battere ciglio.
Era sicura che ci fossero tantissime cose che divertivano Jelonek Fedoryen. Spiaccicarle torte in faccia, in primis; farla aggredire da orsetti gommosi, gettarla in acqua cercando di affogarla e tante altre cose che, stranamente, richiedevano una malcelata violenza fisica nei suoi confronti (come mai la cosa non ti disturba nemmeno un po'?), ma quello...
Quello per Evey era puro sadismo. Era volersi spingere oltre un limite non ben definito e voler aspettare i fuochi d'artificio con l'impazienza di un bambino, era farlo apposta ben sapendo quanto lei lo detestasse. Questo, da parte sua, poteva aspettarselo.
Oppure no. Anzi, no, nient'affatto.
Poteva aspettarselo quando lui si annoiava, come qualcuno che cerca di fare una battuta di sproposito nel tentativo di emergere dal tedio e dal disagio, ma Jelonek non aveva nulla di disagevole né lo avrebbe avuto, né lo aveva avuto la prima volta che si era ripresentato ad Hogwarts, perciò il motivo le sfuggiva. Lungi da lei giudicare quel che lo divertiva (torte e annegamenti a parte), ma... dubitava seriamente che lui si sarebbe divertito tanto nel vederla vestita proprio come Eloise, armata di ciò che impugnavano loro per torturarlo ogni giorno.
Ti stai paragonando a lui. Non farlo, non puoi.
Giusto; mai dare retta agli impulsi vendicativi, non andava mai a finire bene. In nessun caso.
 
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And as you ripped it all apart,
That's when I turned to watch you



Lo sapeva? In un certo senso, sì - non riusciva a non sapere alcune cose, sebbene ci avesse provato (sebbene avessero provato prima a non fargliele capire, poi a non fargliele ricordare; bei momenti, da incorniciare) - aveva passato la vita a provarci, in un certo senso.
Sapeva che i sensi di lei erano schiavizzati da quella ferita che aveva sul collo; lo scorgeva attraverso l'immagine mentale che i sensi di lei producevano. Una brutta copia, comunque più efficace di qualsiasi cosa avesse potuto provare lui in prima persona. Qualche frammento residuo di consapevolezza gli diceva che i centimetri di pelle in cui i suoi canini prima, i suoi incisivi poi, erano affondati, pulsavano, come intenti a rigettare all'esterno il veleno letale di un serpente. Troppo tardi: il suo corpo aveva limiti ben definiti e aveva voglia di salvarsi solo fino a un certo punto. Quando Jelonek era molto piccolo, sua madre (quella persona lì, insomma) gli aveva regalato un libro dal titolo Avventure nel Corpo Umano, pieno di illustrazioni significative su quello che accadeva all'interno dell'organismo in diversi momenti della vita. Quando il bambino protagonista cadeva e si sbucciava un ginocchio, si accendeva un arcobaleno di lucette rosse nel cervello - rappresentato come una centralina piena di leve e pannelli elettrici - e in risposta a questo allarme, il vecchietto posto al comando premeva un pulsante con l'intento di "mandare una pattuglia sul posto". La pattuglia era costituita da una macchinina con a bordo alcuni globuli rossi e bianchi e alcuni esseri di sesso presumibilmente femminile che si aggiravano con un martelletto in mano: la scritta maiuscola accanto a queste figure recitava a caratteri cubitali la parola "PIASTRINE". La pattuglia di piastrine percorreva sgommando le vene del corpo finché non arrivava al ginocchio del malcapitato. La sbucciatura era rappresentata da una specie di muro con un grande buco al centro, dove alcuni mattoni erano crollati. Mentre i globuli bianchi estraevano le sciabole per combattere i GERMI (vermetti con baffi, pettinature punk ed espressioni malvagie: da sempre i suoi personaggi preferiti dell'appassionante saga), le piastrine si facevano strada e cominciavano a battere i loro martelletti sul muro, in una metaforica ricostruzione dei mattoni che erano andati distrutti.
Sul pavimento della Cella Grigia (ovvero lì, lì dove ti trovi adesso) J. F. aveva trascorso ore a chiacchierare con la Pattuglia Speciale delle Piastrine. Il vecchietto nel suo cervello doveva essersi addormentato con la testa sui comandi, provocando ogni sorta di disastri. Le sue Piastrine erano impegnate in qualche bar nel Distretto del Fegato e continuavano a non capire che c'era bisogno di loro, che il sangue in uscita era troppo, che lui avrebbe voluto strapparsi tutta la pelle del corpo e morire come un ammasso gelatinoso senza più nemmeno una faccia (per spezzare una lancia in favore delle Piastrine, tuttavia, bisognava dire che nemmeno loro potevano fare granché contro i pensieri che gli passavano per la testa e contro la follia che gli sfiorava la coscienza un minuto sì e il minuto dopo anche).
Tanto per strappare un ultimo sorriso all'Uomo Simpatico.
Ora, in quel preciso istante, le sue Piastrine stavano ancora guidando a tutta birra, in giro per le sue vene. Jelonek si portò un paio di dita al collo. Il muro non era stato ancora riparato. Si potevano licenziare le proprie Piastrine? Perché tanto per cambiare, stavano facendo un lavoro patetico.
Il sangue usciva copioso, come sempre impaziente di liberarsi della sua noiosissima pelle e vedere il mondo. J. F. considerò per qualche secondo il liquido vermiglio, poi scambiò uno sguardo con lei.
"Basta", gli aveva detto. Voleva che smettesse di sanguinare in un modo così sfacciato.

-Parlane con le mie piastrine- con un flash della fossetta, si mise entrambe le dita in bocca, leccandole con cura finché non furono assolutamente pulite. Non distolse lo sguardo da lei nemmeno per un attimo.

L'altra mano era ancora vagamente accarezzata da quella di lei. C'era una strana malinconia in quel gesto, e nell'eco mentale che aveva dentro di lei. Come se fosse una muta richiesta di perdono; una silenziosa preghiera cantata piano dalla Falsa Evey. Un lamento.

-Non lo faccio per divertirmi, Evey- ridacchiò, stringendosi nelle spalle -Non c'è nessun motivo. Lo faccio e basta-

Il suo braccio sinistro, quello che aveva esaminato l'operato delle piastrine dopo essere stato più o meno martoriato dalla furia vendicativa di lei, si mosse come per circondarle la vita, ma si arrestò a metà strada.
(Sei sicuro di volere che la sua schiena si appoggi contro il tuo petto? Così vicino alle tue costole, al tuo stomaco, a tanti punti più o meno vitali? Che la sua bocca si avvicini di nuovo al tuo collo? Tra poco non riuscirai più a respirare, perché ti hanno fatto cadere a pancia in giù da una grande altezza e il tuo torace è compresso, e ogni respiro è un'agonia, e vuoi soltanto...)
Persino Eloise ora li aveva raggiunti, un po' troppo tardi per il tè. Fu l'ultimo pensiero che intercettò da lei prima di avviare quel movimento del braccio, morto sul nascere. La versione di Eloise filtrata dalle sue aspettative la rendeva una sorta di femme fatale, qualsiasi cosa volesse dire. Le assomigliava persino un po'.

(Non sa che il suo viso è annebbiato, ormai. Ormai, ha sempre più l'aspetto di Kedavra. Forse era davvero lei. Si spiegherebbero quegli Incantesimi di Memoria.)
Perché c'è bisogno di spiegare, sempre. Mandy avrebbe una spiegazione eccome. Mandy direbbe che...

(No. Non qui. Non adesso. Non con lei.)

... direbbe che a forza di sognarla e maledirla e volere la sua morte l'ho intrappolata lì dentro, insieme...

(NO.)

... insieme a me.

(E si sbaglierebbe e non sarebbe la prima volta. Basta con le stronzate. Basta con le sue stronzate. )

La fossetta scomparve, mentre il sorriso prendeva una piega amara che Evey poté vedere solo per un momento. Il braccio si mosse verso destra, avvolgendo la vita di lei in un gesto che non aveva niente di inconscio.

(VUOI che ti opprima il petto. Vuoi che si trovi di nuovo vicino al tuo collo. Che si appropri della tua vita, che faccia pulsare di allarme il tuo sistema nervoso.)

Le sue dita si appoggiarono sul fianco opposto di lei, con la stessa esitazione dimostrata decine di minuti prima. Jelonek sentì l'effluvio dei suoi capelli - e forse, forse sapeva di assenzio, adesso - riempirgli le narici, e quello non era l'odore rassicurante di un... come lo aveva chiamato?
Non era un totem. Era l'esatto opposto di un totem, quello che era stato per lei affondare i denti nella sua carne.

-Avreste molte cose in comune- mormorò, sfiorandole la testa con il mento. Non c'era bisogno di specificare di chi stessero parlando -Anche lei preferiva vestirsi come se stesse andando a un funerale-

(... vuoi che lei ti riporti Lì Dentro. )

-Gliel'ho detto, una volta o due. In maniera educata. Tutto sommato, l'ha presa bene-

Inevitabilmente, la sua lingua sfiorò il buco morbido che aveva nelle gengive là dove un tempo si trovava uno dei suoi molari. Lo aveva fatto l'Uomo Simpatico quello stesso giorno; o forse mesi dopo, o settimane prima.

-Quanto al sadismo... boh, è una parola troppo difficile-

La mano si liberò dalla sua e le sfiorò il lato del collo.

-Ma ora come ora, non vedo ferite, qui-

Le dita si appoggiarono sulla sua clavicola, tra la pelle calda e candida e la stoffa del vestito, mentre il pollice rimaneva premuto leggermente dietro la sua spalla e l'indice sfiorava ancora l'incavo di quella curva così ricolma di punti vitali. Non si sentiva affatto un sadico.
Per la prima volta, anzi, Jelonek Fedoryen pensò che quello che stava facendo avrebbe condannato entrambi in egual misura; che l'unico vantaggio che aveva nel distruggere era che, dopotutto, in lui tutto fosse già stato distrutto da tempo.

What do you came for
What did you expect to find
What do you came for
What did you expect to find
What do you came for

What did you expect to find?



J. F.
 
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Ricambiò il suo sguardo fisso senza distoglierlo nemmeno per un momento.
Osservò, in silenzio, i polpastrelli di lui che si tingevano di rosso prima di essere impietosamente diretti al di là delle labbra sottili, nella bocca che li ripulì minuziosamente e saggiarono quello stesso, delizioso sangue che lei stessa aveva avidamente succhiato via poco prima. Sostenne il suo sguardo fino all'ultimo momento, fino a quando i polpastrelli non furono ripuliti e ricondotti fuori dalle labbra. Non distolse mai gli occhi né battè le ciglia, nonostante ogni singola parte di lei invocasse, a gran voce, lo spostamento delle iridi bluastre lungo i dettagli di quella bocca sottile che aveva languidamente leccato via le tracce del rosso.
Lo odiò; si rifiutava di credere che si stesse comportando in modo innocente ed ingenuo, assolutamente. No, lui sapeva esattamente cosa e dove colpire, sapeva cosa dire e come comportarsi. Jelonek Fedoryen non aveva nulla di innocente ed ingenuo, lo urlavano le targhette alle sue spalle e, oramai, Evey ne era assolutamente convinta: lui stesso aveva firmato quella convinzione scrivendo con inchiostro vermiglio e null'altro strumento all'infuori delle sue dita.
I tocchi sulla mano libera di lui si arrestarono. Non li meritava, non ne era per niente degno. (Non aveva nulla a che fare con il fatto che quella scena l'avesse totalmente assuefatta, facendole dimenticare quelle carezze innocenti ed ingenue, sciogliendole come neve al sole davanti ad un'oscenità che reclamava una punizione esemplare, un secondo attacco da cui l'impertinente non sarebbe uscito vivo.) Non quando, con una faccia di bronzo, affermava di non avere alcuna motivazione a spingerlo, che non lo faceva per divertimento o per provocazione, non lo faceva per alcun motivo.
Cazzate.
Non lo disse ad alta voce. La nonna non avrebbe voluto sentirla parlare in quel modo, e Evey non avrebbe mai deluso la nonna, ma lasciò che Jelonek venisse travolto da quella parola come se lei gliel'avesse appena urlata contro. Mai e poi mai avrebbe creduto che lui si adoperasse a fare qualcosa senza trarne un vantaggio od una reazione. Anche solo per il mero divertimento o per fare la figura dell'idiota del villaggio, Evey non avrebbe mai creduto che Jelonek si sarebbe aggirato così, senza motivo, con una bottiglia d'assenzio a portata di mano. Per lui tutto era un gioco, anche quelle ferite sul suo collo, anche vederla ricoperta del suo stesso sangue. Tutto solo un gioco. Un valido motivo di fondo.
Distolse lo sguardo, ponendolo di nuovo al pavimento mentre lui l'avvolgeva, traendola a sé. Volle nascondergli l'espressione amareggiata (quanto quella dello stesso Jelonek, comparsa per un momento su quel sorriso sfrontato e irritante) nel sentire pronunciargli quella somiglianza.
No, lei non era affatto come Eloise. Non aveva nulla in comune con lei. Non aveva ferito Jelonek di proposito, non aveva tratto alcun piacere, se ne era pentita.
Bugiarda.
Aveva voluto farlo. Aveva aggiunto quella mezzaluna alle firme dei suoi aguzzini, era diventata una di loro. Era diventata come lei.
No. E' stato un errore. Non volevo.
- Non... -
Si accorse che la voce le tremava appena per il disagio e la rabbia di quella realizzazione. Evey non voleva essere come Eloise.
- ... non dire così. - sibilò, tentando di controllare la propria voce.
La mano sinistra percorse lievemente il disegno dell'avambraccio di lui, giungendo alle dita che le cingevano il fianco. Aderì completamente al suo torace, richiedendone il calore, il cuore che accelerò il proprio battito mentre l'incessante bisogno di dimostrarsi lontana e diversa da quella donna funerea diventava essenziale, specie in quell'abbraccio, specie in tutti gli abbracci, passati e futuri, specie in quella vicinanza e in quel respiro tra i suoi capelli.
Io non sono come lei.
Spostò appena la testa di lato ed alzò lo sguardo su di lui. Sentiva ancora quel profumo ferroso, ma non ci avrebbe dato corda. Non si sarebbe lasciata tentare. Non così.
Non puoi resistere...
Si invece.
.. vorresti solo voltarti e riprendere da dove hai lasciato...
No, non lo farò.
... volevi essere tu a purificare le sue dita...
Io non sono come loro.
... e ora ti chiedi che sapore abbia la sua bocca.

Appoggiò la testa alla sua spalla e continuò a guardarlo negli occhi, respirando piano e rabbrividendo appena nel percepire il suo tocco sulla gola. Deglutì ed abbassò lo sguardo sulle dita callose che percorrevano il pallore della sua pelle, come se fosse in attesa, come se ci fosse un conto da saldare. Il cuore prese a batterle più forte, pompando la paura nelle vene, ma Evey non si ribellò; era come paralizzata, totalmente inerme tra le sue braccia, senza poter o voler fare qualcosa.
Non c'è dolore qui. Qualsiasi cosa Jelonek le avrebbe fatto, non ci sarebbe stato dolore. E lei avrebbe pagato il debito.
Avrebbe saputo il gusto nell'essere la vittima, l'avrebbe accettato. L'avrebbe desiderato, lo desiderava da lungo tempo.
- Vorresti essere tu a mettercele? - osò mormorare, e alzando la testa per incontrare il suo sguardo.
Vorresti farmi quello che io ho fatto a te? Ne saresti all'altezza?

What the hell are you trying?
Now I know there is something more
What happened to you?
Still staying on my path

 
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-No, non sei come Eloise-

E io non sono come loro. Purtroppo.
La verità si trovava lì, tra di loro. Qualcosa che aleggiava in quella Sala Trofei dai mille volti. Come un cattivo odore. Come un profumo, mescolato al sudore acido, al sangue ribollente. Qualcosa che nessuno avrebbe mai voluto indossare. Qualcosa che nessuno dei due indossava troppo bene.
La verità risultava così difficile da abbinare, come quella t-shirt bianca che teneva stropicciata sul fondo di uno dei suoi bauli. Chi diavolo aveva pensato di disegnare e poi cucire, magari produrre su scala industriale, una t-shirt bianca? Cosa rappresentava, se non un'assoluta mancanza di idee?
Però lui l'aveva comprata lo stesso, certo che il giorno della T-Shirt Bianca sarebbe prima o poi arrivato. Avrebbe appoggiato il piede sul pavimento al lato del letto, si sarebbe stiracchiato e si sarebbe guardato a un fantomatico specchio a figura intera, ricevendo l'illuminazione: "Oggi è una giornata da t-shirt bianca."
Con la verità sarebbe successa probabilmente la stessa cosa. Difficile dire, in quel momento, cosa sarebbe arrivato prima. Entrambe le idee sembravano azzardate in eguale misura, ma in un certo senso era per questo che Jelonek non riusciva a togliersi quella t-shirt dalla testa.
Il suo mento si era avvicinato alla pelle scoperta dell'incavo del collo di lei: un punto così ridicolmente esposto, una curvatura che rendeva lei e qualsiasi altro essere umano così vulnerabili...
Come facevano i muscoli del collo a reggere quelle stupide, pesanti teste che tutti si ritrovavano? Com'era possibile che millenni di evoluzione non avessero rimediato a quel risibile rischio per la sopravvivenza della razza, cioè l'esistenza di una vena così importante protetta solo da qualche scarso centimetro di carne tenera?
(Perché il profumo dei suoi capelli, e dei suoi vestiti, della sua maschera d'argento, e della notte al Lago e della notte nella Stanza delle Catene e dei suoi diciassette anni si concentrava proprio in quel punto?)
L'ombreggiatura delle sue sporgenti clavicole era sfumata, appena percepibile, tagliata a metà dalla linea di stoffa nera con cui iniziava il cardigan. La stoffa al di sotto della quale i polpastrelli delle sue dita erano appena premute sulla sua pelle. Una pelle che non era fatta per essere vista; una pelle che lui non avrebbe mai dovuto toccare, e questo valeva per qualsiasi uomo con dita callose, rughe nel sorriso e bugie aggrappate alle labbra riarse.
Si sorprese di quel pensiero. Del resto, però, era ormai abituato a considerare qualsiasi parto della sua mente come uno scherzo della natura, dunque non si stupì del proprio stupore. Non c'era più nulla che gli risultasse imprevisto o stupefacente.
L'eloisiano cardigan da funerale le copriva l'intera cassa toracica, oltre al resto del corpo. Una precauzione inutile, quando lui avrebbe potuto bloccare l'afflusso di sangue al cervello semplicemente stringendole le mani attorno al collo. Qualcosa che

Non è mai successo.
(Non ne siamo così sicuri, vero?)
Non sono stato io. Erano ricordi finti. Erano ricordi finti, o non sarei qui.

sapeva fare.

|| Resisti, ragazzina. La fine arriverà presto. ||



La barba che gli cresceva trascurata sul mento le stava sfiorando la spalla. Gli occhi di J. F. furono sulla gola di lei e videro il sangue che trasportava l'ossigeno, che la teneva in vita. Pump, pump. (In lei la vita pulsava.) Videro la vita che pulsava sull'altro collo, quello che con quelle stesse mani, lui aveva...
Alzò di nuovo la testa, lasciando andare il fiato che fino a quel momento non si era accorto di trattenere. La mano ancorata al di sotto della sua clavicola si alzò. Se la passò sugli occhi, strofinandoseli. Il braccio che era avvolto attorno al busto di lei si mosse appena, come per andarsene, ma poi la strinse con più forza, arrestandosi sul suo fianco.
(Quel contatto era scomodo. Quel contatto era irrinunciabile.)
Soltanto per adesso. Soltanto per pochi minuti.
La sua mente adorava peregrinare per i cimiteri. Un vizietto del suo Dopo, di quelli che ti fanno venire i tumori e altri affascinanti problemi di salute.
Al di là del solito viaggetto funereo, Jelonek aveva colto il tono di lei. Ambivalente, come uno di quei dipinti impressionisti che rappresentavano le facciate delle case esposte al sole come un'accozzaglia di pennellate diverse e la fiancata in ombra con un paio di colori scuri (questa, poi, non sapeva dove l'aveva pescata). La Vera Evey era esposta al sole, faceva ondeggiare orgogliosa il suo ventaglio di tonalità primaverili, strappate a fiori e tramonti. La Falsa Evey era quella che ancora aveva voce in capitolo sulla scelta sui vestiti, colei che soffocava quegli istinti autentici e selvaggi con un manto grigio e uniforme.
La Vera Evey le stava dicendo che diventare la sua vittima sarebbe stato inebriante: condividere con lui l'estasi della sua vita che gocciolava piano piano nella bocca di un altro.
La Falsa Evey, per contro, istillava in lei la paura di un dolore irrisorio, la paura che con quel morso, lui l'avrebbe potuta in qualche modo contagiare.
Come se i suoi denti iniettassero veleno - come se iniettassero assenzio.

-Un giorno, forse-

Rispose infine alla sua domanda. La Vera Evey era imbronciata, proprio come capitava spesso alla sua Eloise. La mano che era salita a grattargli il mento, si abbassò di nuovo, scostandole i capelli dalla spalla.
Averlo come carnefice, rivelarsi in una maniera così plateale, sarebbe stato difficile. Tutti, in fondo, preferivano trovarsi dall'altra parte del pugnale, quella della punta. Non importava quanto frignassero per timore o sofferenza. Evey non aveva mai perdonato a Lily Luna Potter quell'accettazione a farsi assalire e ferire, quella costrizione a portare la sua scomoda etichetta da animale mentre l'altra si aggirava indisturbata come preda.

-Quello è il tuo Trauma, Evey-

Quello di renderla la vittima, la preda, sarebbe stato il suo più grande regalo.

-Andremo lì dentro- le sue dita rimasero tra i suoi capelli, ormai scostati a coprire la spalla priva della carezza ambigua del suo respiro -Se una volta lì dentro mi chiederai di farlo, non mi tirerò indietro-

Suonava come una promessa, e lui non faceva mai promesse. Del resto, era convinto che una volta lì dentro, sarebbe stata lei a pretendere di morderlo di nuovo; quello era il territorio della Vera Evey e questo era ciò che Lei voleva.
Una volta lì dentro, Evey avrebbe scoperto che non c'era più spazio per altre etichette. Avrebbe scoperto che era una predatrice, una cacciatrice, una torturatrice. Avrebbe scoperto che l'unico momento in cui era stata veramente sana era quando l'assenzio l'aveva ammalata. E che la sua unica medicina non poteva consistere in altro che nelle gocce di veleno che lui riversava in lei.

-Non avere paura- mormorò poi, le labbra che si muovevano appena al di sopra del suo orecchio, dei suoi occhi, della sua bocca, della sua giugulare.

"Hold on, little girl
The end is soon to come."



J. F.
 
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Chiuse gli occhi.
Si trovava nel mezzo di un torpore indescrivibile. Sentiva il suo fiato sulla pelle, il suo respiro che le riscaldava l'incavo tra la spalla ed il collo, facendole percorrere la schiena con un brivido impercettibile. Inclinò appena la testa verso quella di lui, ancora appoggiata alla sua spalla, e respirò a sua volta il profumo di Jelonek. Anice. Pura anice.
Le dita affondarono nella pelle del braccio che l'avvolgeva, tradendo l'impazienza angoscia. Era quello il suo status naturale; quella paura, quella trepidazione, sapere di essere sul filo del rasoio, sull'orlo dell'abisso, capire che ogni passo che avrebbe osato fare avrebbe potuto essere l'ultimo, quello che l'avrebbe precipitata nella tenebra... era inebriante. Era quello che voleva, quello a cui, sapeva, non sarebbe riuscita a rinunciare.
Evey voleva quella paura. Voleva quella rabbia. Voleva sentirsi vittima e voleva sentirsi carnefice. Voleva tutto; uno l'aveva già provato, l'altro... l'altro ruolo doveva ancora calzarlo, ma se l'atto vero e proprio avesse avuto metà dell'adrenalina che la faceva fremere in quel momento, si sarebbe potuta dire pienamente appagata.
Rabbrividì nel percepire la sua barba posarsi sulla spalla, nell'avvertire il morbido contatto delle sue labbra. Aprì gli occhi e si ritrovò ad una vicinanza pericolosa con la giugulare di lui, ancora. Chissà come sarebbe stato... uno scambio equo. Lei avrebbe preso da lui e lui da lei; si sarebbero nutriti l'uno dell'altra in un rito sacro, inebriante, senza precedenti. Avvertì il cuore pulsarle in maniera oscena davanti a quella prospettiva.
La mano corrispondente alla spalla tentatrice salì ad accarezzare i capelli di lui, stringendone le ciocche, impaziente. Osservò il suo profilo, affascinata ed intrigata, concentrandosi sui dettagli scavati dei suoi occhi, sulla curva del naso oltre il quale le labbra erano nascoste dalla propria pelle. Guardò i riflessi biondi della barba, sempre più rari e morenti con l'avanzare dell'oscurità, come scintille ingannevoli che costruivano l'illusione della salvezza prima di affondare le zanne nella carne...
Codardo...
Gli occhi di Evey brillarono nel sentenziarlo, ma la sua mano non accennò a riemergere dalle chiome di lui. Sentì una gran rabbia percorrerla da capo a piedi, e, con essa, un desiderio ancor maggiore. La gola di Jelonek, il sangue che vi sprizzava, sembrò profumare ancora più di assenzio. Evey non pensò nemmeno per un istante di togliersi da quella posizione, specie quando lui la strinse più forte. Un vago ghigno le sfumò sulle labbra, prima che queste si avvicinassero a quelle di lui, tanto che le toccarono e le sfiorarono più volte quando Evey parlò.
- Sei proprio sicuro che ti convenga farmi entrare lì dentro? - sussurrò quasi dolcemente, senza distogliere lo sguardo da lui.
Una volta chiusa la porta della Stanza delle Catene alle loro spalle, nessuno dei due avrebbe più avuto il controllo di ciò che sarebbe successo. L'ultima volta, Evey aveva lottato e si era dibattuta per avere ciò che le spettava, c'era voluta una terza persona per strapparla via da quel che voleva. Jelonek si sarebbe difeso da solo? Oppure l'avrebbe lasciata nutrirsi di lui fino alla fine? Si sarebbe reso conto del suo errore?
Oppure avrebbe anche lui dato il peggio di sé stesso?
No, non il peggio. Mi darai il meglio. Ed io farò lo stesso. Mi renderai fiera ed io ti renderò fiero.
Le dita di Evey percorsero il disegno del suo zigomo sinistro, mentre il sorriso sinistro si ampliava, ammirato nonostante il rimprovero di codardia di cui Jelonek si era appena macchiato. Avrebbe fatto ammenda per quello sbaglio; lei gliel'avrebbe fatto fare. Si sarebbe pentito e avrebbe rimediato egregiamente al suo errore. Finchè lei non ne sarebbe stata soddisfatta.
- Non ho paura - rispose in un respiro.
Quello è il mio posto. Quella è la mia casa.
Evey non poteva avere paura di casa sua, e nemmeno di chi l'avrebbe ricondotta lì. Ne avrebbe avuta solo perchè faceva parte del gioco, un meraviglioso gioco a cui lei non vedeva l'ora di giocare, temerlo mentre la guardava, temerlo mentre si avvicinava, temerlo mentre le scostava i capelli, temerlo mentre la mordeva, temerlo mentre la beveva, temerlo mentre continuava fino ad un secondo prima di ucciderla...
Era proprio ciò che lei voleva. Ciò che la divertiva. Ciò che bramava.
E lei avrebbe ricambiato con la stessa moneta. Si chiese se l'uomo della rimessa delle barche giocasse come lei ad aver paura, si chiese quale parte, tra le vittima ed il carnefice, gli piacesse di più. Evey sperò si trattasse del carnefice; avrebbero lottato a sangue per decretare chi, tra i due, l'avrebbe interpretata per primo, avrebbero combattuto con le unghie, con i denti, con i corpi per vincere quell'ambito premio...
E forse Evey l'avrebbe lasciato vincere. Lei era generosa, a lei piaceva giocare tutte le parti, in fondo. La Stanza delle Catene sarebbe diventata il loro parcogiochi personale e al contempo un luogo sacro accessibile solamente a loro. Avrebbero giocato e compiuto rituali e fatto entrambe le cose contemporaneamente. Avrebbero costruito lì il loro vero mondo. Loro due, nessun altro. Ci sarebbero rimasti per anni.
- E tu? -

We were working together, we were exploring the concept of a dream within a dream.
I kept pushing things. I wanted to go deeper and deeper, I wanted to go… further.



Edited by Evey - 27/1/2014, 18:49
 
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view post Posted on 28/1/2014, 09:59
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Nel momento in cui Jelonek sentì le mani di lei insinuarsi tra i suoi capelli, insieme alla pressione crescente delle sue dita sul suo braccio, si fece per la prima volta una domanda molto semplice, qualcosa che non si era mai chiesto, qualcosa a cui la Legilimanzia non poteva fornire risposte.
Che cos'è che ho acceso?
Tra le ombre della mente di lei, la paura che aveva intravisto nella ragazzina alla rimessa delle barche aveva messo radici profonde, ormai insondabili. Il seme era già stato piantato, molto prima del loro incontro nell'Ufficio del Preside. Era bastato innaffiarlo con un po' di assenzio per farlo germogliare. Prevedibile, quasi... matematico. Oltre la sua fronte pallida, ora, era cresciuta una foresta densa di incubi, minacce, desideri oscuri e pericolosi.
Il suo sguardo, nella penombra, si era fatto magnetico. Le sue parole facevano vibrare corde tese, stuzzicavano istinti che credeva lo avessero abbandonato - presenze che lo avevano lasciato da solo, e di cui non aveva mai sentito la mancanza, perché tra queste c'era anche la possibilità stessa di sentire.
Aveva saputo dall'inizio che Evey arrancava dietro una maschera. Quei mesi erano serviti a verificare, sempre più da vicino, di che materiale fosse fatta: argento? Acciaio?
Il Lago Nero e, soprattutto, la Sala Trofei avevano dimostrato che la sua maschera era di un materiale molto meno resistente. Era composta da un sottile strato di cera. Era bastato il fuoco a scioglierla.
Che cosa vedeva ora? Che aspetto avevano i suoi occhi? Quale sapore...
(... sa di Cella Grigia. Così come tu sai di Stanza delle Catene.)
Non aveva bisogno di accorgersi di quanto lei fosse diversa, di come non sembrasse la stessa persona che aveva rabbrividito davanti a ricordi proibiti, scacciando pensieri vietati che la facevano inorridire. Non era la stessa persona di allora.

-Non sono sicuro di nulla-

Ormai, Evey era mossa da tutto quello che a lui mancava. Istinti ferali, appetiti sconosciuti, graffiante volontà di estrarre le unghie e ferire, poi di alzare le braccia e lasciarsi fare del male, e di nuovo scoprire le fauci e vendicarsi. Era una tigre dai denti a sciabola, affatto contenta di trovare qualcuno nel suo territorio, ma tutt'altro che impaziente di affondare le zanne e assassinarlo una volta per tutte. Prima, avrebbe giocato. Avrebbe assaporato l'impagabile retrogusto del rischio, l'avrebbe accarezzato con la punta della lingua, lasciando che le proprie pupille gustative ne venissero sedotte. Quasi ciascun esito che J. F. aveva messo in conto si era rivelato erroneo e distante dalla realtà.
Ora, c'era in lei qualcosa di ancora più imprevedibile. Un languore strano che rallentava i suoi movimenti e rendeva soffici le sue parole, in una danza silenziosa e letale.
A parte la propria incapacità di provare qualsiasi cosa (?), si poteva ben dire che Jelonek non avesse altre difese.
Si poteva ben dire che fosse rannicchiato in qualche angolo della Cella Grigia - perché faceva meno freddo, anche se di tanto in tanto usciva un ratto dalla sua tana a rosicchiargli un po' i piedi - ad aspettare che la notte finisse e che lo venissero a prendere e che gli venisse incollato un altro giorno nella mente, identico a quello prima, identico a quello dopo...

-Ho molta, molta paura- mormorò, e nel farlo voltò il capo verso di lei, per poterla guardare negli occhi, per poter scrutare a fondo quel cambiamento, potersi specchiare, poter pensare "Sono stato io" -Sei una persona pericolosa-

Adesso.

-E io sono un codardo-

Le labbra di Evey erano già mortalmente vicine, sospese sul baratro dei loro respiri: da una parte, quello che si poteva ancora spacciare per un contatto benefico, dall'altra, il taglio mortifero del collo, semplice come il morso a una mela.
Jelonek scelse il dubbio, optò per la sospensione, esitò nell'incertezza; nulla gli era più naturale. Così, anche le sue labbra sfiorarono quelle di lei, mentre sillabava l'offesa rubata alla sua mente.
Per qualche lungo, stiracchiato momento non fece altro che guardarla. Per un Legilimens, uno sguardo poteva sostituire giorni e giorni di conversazioni inarrestabili. Con il tempo aveva imparato a selezionare le informazioni di maggiore importanza, che gli bombardavano la coscienza senza che lui potesse impedirlo. Non erano traumi che cercava, questa volta, non erano segreti, non erano preziosi punti di appiglio. Invece, pescò a grandi manciate dettagli inutili, colorati, stralci di ricordi che lei conservava, per chissà quale motivo. La vide sfogliare e ritagliare riviste di draghi, la vide sfrecciare sotto la pioggia in un allenamento di Quidditch, rubare vestiti alle sue compagne di dormitorio, chiudere gli occhi sull'immagine del suo letto a baldacchino, la vide correre nel giardino della sua famiglia...
... si rivide attraverso i suoi occhi. Appariva più grande di quanto non si sentisse, appariva come un interrogativo inspiegabile, un sinistro buco nero verso cui i suoi sentimenti si contrastavano in una lotta senza quartiere.
A quel punto abbassò lo sguardo sulla sua bocca, perché aveva già scavato oltre, era già arrivato più a fondo, ma non era giusto, non era bello, non era divertente.
Si mosse poco più avanti, così da incontrare le sue labbra. Chiedeva pietà, ma con un sorriso soffocato in quelle fossette ambigue, a esprimere tutta la sua rassegnazione. Le sfiorò la bocca, esplorandola appena con la punta della lingua, respirando sulle sue guance mentre socchiudeva gli occhi, cullato dal dolore sordo della ferita al collo, un tutt'uno con quel contatto morbido.
Una trance che durò solo pochi secondi. Tornò ad allontanarsi da lei, liberandosi dalla sua presa - non senza una qualche cautela - e alzandosi in piedi. Le offrì una mano per fare altrettanto. Oltre le finestre, i colori che il cielo gettava sul parco in lontananza annunciavano l'avvicinarsi del tramonto.

-Dovresti avere più paura dei Prefetti-

Si portò una mano al collo, trovandosi le dita ancora sporche di sangue. Ghignò.

-E io dovrei averne di più di Mandy, se vogliamo entrambi rimanere tra queste... gloriose mura-

Lanciò un'occhiata al suo trofeo personale, ben visibile dietro la vetrinetta, se si sapeva dove guardare.

-Non dimenticarti il...- esitò per un attimo, non volendo ripetere lo stupido nome ad alta voce -Il cosomantello. Abbiamo già fatto abbastanza casino, qui dentro. Poi mi è costato fior fior di galeoni-

Trofeo all'eleganza.

-Buona serata, signorina Shipperson-

Si sfiorò la tempia in un immotivato saluto militare, poi recuperò il suo pastrano e si incamminò per il corridoio, pronto a perdersi un'altra volta.

J. F.
 
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