Hogwarts: Harry Potter Gioco di Ruolo

Smells like teen spirit, Privata

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view post Posted on 23/12/2013, 00:57
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«Jenny would dance with her ghosts».

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Evey fece una smorfia: se fosse stato Jelonek a decidere quanto bene si sarebbe comportata, allora stavano freschi. Jelonek era l'ultima persona che potesse giudicare il comportamento di qualcuno. Non dopo Pedro e Pablo, non dopo la crema pasticcera che, no, non avrebbe mai e poi mai finito di rinfacciargli.
Si voltò, appoggiandosi al suo petto con le spalle e rilassandosi contro di lui. Come poltrona era ottima: era ampio abbastanza per lasciarla accomodare in modo confortevole, la testa di lei appena sotto la sua gola. Poteva addirittura rimanere semisdraiata contro di lui, sempre che fosse abbastanza forte da rimanere in equilibrio sulle sue gambe.
Ora le sue mani erano sui fianchi. Evey vi posò sopra le proprie, portandole distrattamente al grembo, e vi intrecciò le dita con le sue. Era bello pensare che, in quel modo, lo metteva in difficoltà con la sua cara amica. Niente più scorciatoie, di nuovo: avrebbe avuto accesso alla sua testa solamente se Evey avesse guardato verso l'alto.
Ghignò. Era proprio malefica.
- Che idiota! - commentò ridendo all'idea di lui che si spaccava il ginocchio per non salire più sulla scopa. Come si faceva ad avere paura di una cosa simile? Evey decise che prima o poi gliel'avrebbe fatta passare. Era sicura che a Jelonek sarebbe piaciuto giocare o semplicemente volare, ma era troppo stupido per rendersene conto. Si, di sicuro era così.
- Io ti ci avrei fatto salire anche con il ginocchio rotto! La paura va affrontata subito, no? - domandò angelica. Sarebbe stato divertente vederlo costretto a proseguire la lezione e punirlo per quell'indisciplina - Sei riuscito a fare impennare uno dei manici di scopa della scuola, comunque. Sono ammirata, non è impresa da tutti. - aggiunse con un ghignetto.
Era vero, le scope in dotazione della scuola andavano bene per spazzare il campo, al massimo, affrontarci un'intera partita era qualcosa di... impensabile. Tanto valeva salire su una delle torrette e buttarsi di sotto senza avere affatto il manico di scopa. Come diavolo c'era riuscito lui a farne impennare uno? La forza della sua disperazione evidentemente era stata piuttosto distruttiva.
La tragedia avvenne. Il modo in cui Jelonek definì le persone che giocavano a Quidditch la turbò profondamente; Evey era sbalordita e furiosa al contempo.
Lo fulminò con lo sguardo, alzando la testa e cedendo al proprio orgoglio, concedendogli l'accesso. Lei non puzzava affatto, anzi! Il Quidditch faceva profumare le persone di trionfo e soddisfazione. Era chi non lo capiva che puzzava.
Socchiuse pericolosamente gli occhi.
- Ritira! Subito. - gli ordinò minacciosamente. A meno di non volerla vedere davvero violenta, e lei era molto forte. Potente. Non si faceva scrupolo ad usare le unghie e tirare i capelli.
E mordere. Specialmente mordere.
Arricciò il naso quando lui le fece annusare il maglione. Non puzzava, era pulito, ma doveva punirlo per quell'irriverente osservazione, quindi finse di non aver mai sentito lezzo più terrificante. Teatralmente si portò la mano destra davanti al viso, agitandola come se stesse scacciando una mosca e al contempo cercare di farsi aria.
- La tua giustizia puzza di... poncho ripescato in mezzo alle alghe! -
Niente di più terribile e pieno di germi. Infetto, altamente contagioso. Tornò a ghignare, divertita e soddisfatta a quel pensiero.
- Non profumi affatto! Tu puzzi, hai sempre puzzato. -
Facciamo le cose in grande.
La mano destra tornò a posarsi sulla sua, carezzandone il dorso e andando ad intrecciate il filo dorato tra le dita di lui. Guardandolo, si rese conto che lui ancora non aveva detto di aver indovinato i suoi regali, il che le dava un'immensa soddisfazione, specie se aveva scelto di credere che lui non l'avesse fatto per non dirglielo e riserbarle l'effetto sorpresa. Sicuramente era andata così.
Alzò di nuovo la testa e lo guardò dal basso, senza sbattere le palpebre. Dischiuse le labbra e la voce che le uscì era un mormorio sfuggevole.
- Non profumerai mai di rettitudine e onestà. Tu sei un bugiardo. -
E non me ne importa.
Jelonek puzzava di disonestà (le targhette non avevano mai cessato di urlare), ma profumava di calma e giustizia tanto da coprire l'odore sgradevole. E lei non aveva bisogno di rettitudine e onestà, ma di calma e giustizia, quelle che poteva darle lui. Quelle che l'avrebbero condotta su quel sentiero che Evey voleva percorrere, solo se, però, ci fosse stato lui a guidarla.
Distolse lo sguardo, recuperando il ghigno e l'espressione divertita nel riabbassare il capo.
- Non hai mai visto il vero Quidditch, chiaramente. - disse con solennità - Vieni a vederci alla finale, contro i Grifondoro. Sarà uno spettacolo senza precedenti, finalmente ti divertirai. -
La partita tanto attesa. Daisy Hall aveva anticipato a tutti loro di avere in mente una strategia micidiale; Evey sperava che fosse qualcosa che permettesse ai Serpeverde per tornare a concorrere per la Coppa, visto che i punteggi non erano assolutamente in loro favore e lei non aveva nessuna voglia di vedere la Coppa tra i rostri delle Galline.
Chi disprezza compra. Quelli che stai accarezzando sono rostri anch'essi.
Sorrise, di nascosto.
 
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I guess I'll save the best for last
My future seems like one big past
You're left with me 'cause you left me no choice



(Lo faceva apposta? Lui sapeva che la risposta era no. Neppure, la risposta era ni. Lo faceva per sé. Era la reazione egoistica alle sue azioni egoistiche, alla sfacciataggine con cui si faceva scudo con lei. Una parte di lei, una che nemmeno pensava, lo sentiva, lo percepiva a una qualche profondità disumana. Influenzava il resto del suo essere. Li faceva avvicinare, per scrutarlo a fondo, a un livello che si trovava molto al di sopra e molto al di sotto di ogni parola. Un incontro primitivo tra nullità mute, senza volontà propria.)
Evey si avvicinava a lui nella speranza di trovare qualcosa che gli dicesse che era possibile sopravvivere a quello che le stava facendo (cosa...?). Un'istintualità storta e primordiale, simile a quella che motivava in una qualche misura tutte le azioni che J. F. era ormai in grado di compiere. Evey voleva guardarlo da vicino, ma non lo faceva prima di abbandonarsi a lui, come precauzione; lo faceva durante la sua resa. Questo continuava a creare... interferenze. Un attacco su un fronte che Jelonek aveva lasciato scoperto. Un'interruzione, un divertissement.
(Hai perso tutto quel tempo a erigere barriere contro il dolore, che pure ormai potresti sopportare in ogni sua forma. Come si chiama quella cosa contro cui non hai alcuna difesa?)
Tanto, è era è impossibile.
Nessuno metterebbe mai il costume da bagno nella valigia per un viaggio in montagna. Nessuno, tranne lui, forse.
Mentre Evey si accomodava tra le sue gambe, Jelonek cercava di ricordarsi in qualche tasca avesse ficcato i suoi boxer di spugna. Nel mentre, nel suo cervello lampeggiavano insegne che dicevano "CUORE, VENE DEI POLSI, AORTA, ARTERIA FEMORALE... COSO" a indicazione dei punti che lei da quella posizione avrebbe potuto incidere con un bisturi causandogli morte per dissanguamento in un intervallo temporale che andava da pochi minuti a un'ora. Il suo muscolo cardiaco rallentò i battiti invece che accelerarli, una cortesia che tutto sommato Jelonek non si aspettava. In realtà, aveva capito: il suo corpo era in attesa. Dalla pelle alle ossa, passando per gli organi, le vene, il sangue, i nervi... c'era una sorta di stupito raccoglimento, un tacito accordo in cui non era stato chiamato in causa (non era più lui al comando, del resto, già da un po' di tempo).
Attendeva di scoprire cosa avrebbe significato averla vicino a sé in quel modo. Attendeva di sentire.
(Non indossava i boxer di spugna. Non li aveva nemmeno portati. Almeno questo lo aveva chiarito.)
Lo faceva apposta?
L'"attesa" si era tradotta in un nuovo irrigidimento muscolare, che durò molto più del solito. Quando lei si appoggiò a lui, abbandonandosi al suo petto, trovò il torace contratto. Quindi era così che si sentiva una poltrona, pensò Jelonek quando la testa di lei si ritrovò ancora una volta sotto il suo mento. Da quella prospettiva, la schiena di lei sembrava ancora più piccola. Iniziava lì, dove cominciava il suo fianco, finendo di là, a una distanza ridicola. Era incredibile che dentro quella scatola ridotta potessero starci tutti quegli organi. E che in quella testa albergasse un cervello funzionante. Più o meno, d'accordo, visti i suoi voti. Ma sicuramente funzionava in modo più efficiente del suo. Un cervello normale.
La sua puzza da giocatrice di Quidditch gli invase nuovamente le narici. Sapeva di tattiche femminili su cui nessuna delle lettrici di Streghetta Intrigante aveva bisogno di scrivere lettere, visto che non c'era niente da dire al riguardo... almeno, non tra donne. Jelonek avrebbe volentieri letto qualsiasi cosa fosse mai stata redatta sull'argomento, ma aveva la sensazione che sarebbe stato comunque troppo tardi.
Finché il suo mento, con i suoi rovi rigidi, le sfiorava il cuoio capelluto, e lui non poteva guardarla negli occhi, rimaneva solo con le sue mezze domande.
(Lo fa per sopravvivere e noi non la biasimiamo. Il topo continua ad agitarsi anche quando il gatto ha la zampa puntellata sulla sua coda. Tu lo sai, perché il topo sei sempre stato tu.)
[Ma lei non è un topo. Io non sono un gatto. E no, io non ho mai veramente lottato per sopravvivere.]

-Non potrei mai mettermi contro la grande e potente Eva Ginginson- Jelonek le avrebbe mostrato i palmi delle mani in segno di resa, ma Evey era stata più Legilimens di lui, e la sua mano destra non aveva scampo. Per fortuna che aveva la sinistra e non era costretto a rinunciare alla mimica -A meno che non volessi vedere questi suoi famosi...-

Assottigliò gli occhi, imitandola involontariamente. Lei aveva voltato il capo, ma c'erano ancora mezze domande, briciole di risposte troppo complicate per essere ricostruite.

-Graffi, tirate di capelli, morsi addirittura- desiderò incrociare le braccia sul petto, ma poteva muovere solo un braccio e nemmeno il suo petto era libero. Altro piano andato a monte. Agitò il sinistro prima di tornare ad appoggiarselo sulla coscia, frustrato -Non penso proprio che la signorina Gringinson possa provocarmi più dolore di...-

Eloise. L'Uomo Simpatico. L'Uomo Silenzioso. Il Magico Trio.

-... una caduta da manico di scopa sul ginocchio. Non credo di avere davvero nulla da temere-

Batté le palpebre più volte, scettico, quindi si portò il dorso della mano sinistra alla fronte.

-Non posso guardare il Quidditch. Mi sentirei come un romano che guarda gli schiavi infilzarsi con delle lance dentro un'arena. Ho dei principi. E poi la vista di tutte quelle scope sospese rievoca...- fece una pausa d'effetto -Il mio trauma-

Accennò al ginocchio, non accorgendosi neppure che quell'affermazione le offriva su un piatto d'argento l'occasione di rispondergli per le rime. In realtà non era sicuro di quale fosse, tra i due, quello che si era rotto, ma non era davvero importante ai fini della storia. Abbassò il braccio, sentendo che non sapeva sfruttare quella libertà come avrebbe dovuto. A chi era mai servito un braccio solo? Il sinistro, poi?
(Lo sai. Non lo sai, ma lo farai lo stesso.)
Evey non era certo la ragazza più piccola che avesse visto (alcuni del primo anno sembravano dei goblin della Gringott), aveva anche un fisico tutto sommato normale. Tuttavia, Jelonek motivò con una propria curiosità esplorativa il fatto che di punto in bianco il suo inutile braccio sinistro le si avvolse intorno alla vita. Non riusciva, per qualche strana ragione, a stringerla come avrebbe dovuto (?) fare; il suo avambraccio rimaneva a circa un centimetro dalla stoffa dei suoi vestiti, come se un contatto più ravvicinato potesse dargli la scossa. O peggio, portarla ancora più vicina, ancora più...
(... dentro.)

- Non profumerai mai di rettitudine e onestà. Tu sei un bugiardo. -



L'ultima cosa che una persona sensata avrebbe fatto dopo quelle parole sarebbe stato sorridere. J. F. non ebbe alcuna esitazione nel lasciare che le sue labbra si incurvassero, che le fossette emergessero tra quello strato di barba fine.

-Se non lo fossi stato, non sarei nemmeno qui. Se Eva Ginginson ha tutta questa voglia di verità, magari vorrà venire con me nell'Ufficio del Preside a parlare a Mandy delle acconciature all'ultima moda che abbiamo provato su Zeboim, qualche notte fa-

Ora che la sua mano sinistra le aveva cinto il busto, si era riunita alla destra. Mentre Jelonek parlava, le sue dita avevano iniziato a sfilarle il filo dorato dalla presa, incrociandolo non del tutto a caso. Lo passò sotto il polso di lei e sopra il proprio. I suoi movimenti si arrestarono solo quando le loro mani furono intrappolate l'una sull'altra sotto uno sghembo fiocco regalo.
J. F. osservò l'opera con un compiacimento non del tutto nascosto, il mento fermo a qualche centimetro al di sopra della spalla di lei.
Cosa le stava regalando?
(A cosa la stava condannando?)
[Cosa mi sta facendo lei?]

I've left behind this little fact:
You cannot kill what you did not create.



J. F.
 
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- Una collana! - disse dunque, sorridendo con orgoglio e stringendo la mano intrappolata con lei - Il primo regalo è una collana. Molto brutta, ma a te piacciono le cose brutte e quindi sarai contento. -
Una collana fatta con quel filo che li teneva legati. Aveva un colore dorato sfacciato e brillante, di quelli che sapeva Jelonek avrebbe apprezzato (avrebbe potuto dipingerlo dell'arancione Decay). Mancava soltanto qualcosa all'estremità, un amuleto, un decoro, un ciondolo. Oppure qualcosa di più personalizzato, come un pelo di Zeboim, un'alga da far accuratamente essiccare prima, un sasso dell'High Street.
No. Evey aveva qualcosa di meglio.
- Il professor Fedoryen si ritroverebbe con il posteriore sbattuto da qualche parte, tra la foresta congolese, prima di poter finire il suo racconto. - lo schernì.
Preside, le giuro... io... non volevo. Il professor Fedoryen mi ha obbligata. Io non volevo, ma lui mi ha costretta a pettinare Zeboim per tutta la notte! La prego, non glielo permetta di nuovo.
Ghignò. Sarebbe stata molto più brava di lui a recitare quella parte, era facile costruire quella scena. Evey aveva un talento naturale per l'arte attorica, lo si era visto ad Hogsmeade, Diagon Alley e nella rimessa delle barche. Jelonek non aveva alcuna speranza contro di lei.
Dunque qual era la conclusione? Bugie o non bugie?
Dipendeva dalla bugia. Di certo, quella di non sapersi ricucire il poncho era stata una delle poche, buone idee che Jelonek si fosse fatto venire. Il motivo non si sapeva assolutamente, era misterioso, celato perfettamente nell'ombra.

Sure, if we change our perspective
I'm certain, I would change today
I'm certain, it will change our ways
Would things fall into place?



Di nuovo avvertì il suo corpo che si irrigidiva, di nuovo lo percepì prepararsi al dolore. Evey lo guardò negli occhi, ancora; ogni volta che era lei a toccare lui, Jelonek non avrebbe potuto fare a meno di aspettarsi sofferenza. Indurì lo sguardo, senza distogliere gli occhi dai suoi; non voleva che provasse una cosa del genere. Non con lei.
Hai promesso di aiutarmi. Come aiuterai te stesso? Ti sei arreso?
Sapeva che era qualcosa che probabilmente non avrebbe superato mai, ma Evey era testarda. Avrebbe imparato, pian piano, a dargli sollievo. Restituirgli ciò che lui stava dando a lui, condividere quel benessere che non era sicura Jelonek sapesse di darle. Non era un fatto di mente, non poteva vederlo insito nel suo cervello, era... la sua testa appoggiata alle sue spalle. Era quel braccio intorno alla sua vita, che Evey spinse delicatamente al completo contatto con il proprio corpo. Erano quelle due mani intrecciate ed allacciate a quel filo dorato. Non c'entrava nulla con la mente. Erano le vene del polso che acceleravano il suo battito. Le sue pupille che si dilatavano appena.
Ruotò appena il capo, avvicinando le labbra alla pelle della sua gola. Su quello stesso punto in cui, un anno prima, aveva affondato i denti. Osservò la tensione che lo irrigidiva, impassibile.
- Non fare così. - disse piano, guardando quella giugulare che compariva, a tratti, pulsando.
Sentiva ancora l'odore dell'assenzio sulla sua pelle. Aveva ancora voglia di lacerare e sbranare.
Il petto di Evey si alzava e si abbassava più rapidamente, gli occhi stregati da quella materia così vicina, così profumata, così invitante... La gola le ardeva, poteva sentire il suo corpo bramare l'assenzio che ruscellava lentamente sul collo di Jelonek, la chiamava...
Perchè profumi di assenzio?
Chiuse gli occhi ed avvicinò le labbra alla gola di lui. Vi poggiò sopra un bacio leggero, le dita della mano intrappolata che si giravano per andarsi saldamente ad intrecciare con quelle di Jelonek. Evey riaprì gli occhi e lo guardò sbattendo le palpebre.
- Non c'è dolore qui. - disse con tono sussurrato e fermo al contempo. Si avvolse il busto anche con il suo braccio destro, senza svicolare dall'intrigo di filo d'oro, rimanendo così avvinta a lui.
Io non ti farò del male.

Pain is in the mind.



Lascia che anche io ti aiuti. Almeno per quando sei con me.
Non per forza doveva essere uno di quei fastidiosi vicoletti a senso unico. Lei non era la sola che necessitasse aiuto. Quella tensione nel corpo di lui parlava chiaro, e Evey aveva deciso che non le sarebbe piaciuta. Un giorno, Jelonek avrebbe ricevuto i tocchi delle sue mani senza doversi preparare, senza sentire il bisogno di temere qualcosa, il dolore, che non sarebbe arrivato. Non da lei.
Non puoi esserne certa. Non hai mai fatto del bene, solo del male. Cosa ti impedirà di farne a lui?
Lui. Lui stesso l'avrebbe impedito. E lei con lui.
Ne ebbe la certezza guardando i suoi occhi.
Si mosse autonomamente, senza preavviso. Si ruotò appena su se stessa, alzando il braccio sinistro e portando le dita tra i suoi capelli. Si concesse un istante in cui la sua mano si mosse piano tra le ciocche scure. Lo fissò negli occhi, stranamente intransigente, straordinariamente calma. Non si limitò a fargli scorgere ciò che voleva che accadesse. Lo pronunciò.
- Baciami. - sibilò, le dita che stringevano i suoi capelli nello spingere la testa contro la sua. Incontrò le sue labbra in modo differente, in una maniera nuova. Non era delicata, ma al contempo aveva dolcezza, sepolta da qualche parte. Non era gentile, ma la sua mano avevano preso ad accarezzargli piano i capelli. Non sapeva cosa fosse, né da dove provenisse; sapeva solo di volerlo e di sentire quel bisogno impellente di aprire le sue labbra ancora ed ancora, reclamando il suo sapore. Sentiva il proprio battito accelerare senza sosta, il suo calore, nel corpo, aumentava. E non aveva la minima idea di cosa fosse.
I suo denti si strinsero appena sul labbro inferiore di lui come se ci fosse dell'assenzio proprio lì, lì sopra, che colava in lui. Era sbagliato, non poteva farlo. Ma doveva. Voleva.
Non gli farai del male. Non ha nulla a che vedere con tutto questo. Questo va bene.
Non c'è dolore qui.

Give me the strength to face the wrong that I have done
Now that I know the darkest side of me

 
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view post Posted on 26/12/2013, 19:04
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If only I could tell you everything,
The little things you'll never dare to ask me...



Quello che non aveva un nome, quello per cui lui non aveva difese, era evidentemente qualcosa destinato a limitare la loro libertà. J. F. avrebbe potuto fingere di non saperlo, se non fosse stato che J. F. non fingeva mai. Se non fosse stato che J. F., proprio lui, aveva stretto un nodo intorno ai loro due polsi, unendoli, senza chiedere il permesso a nessuno. Forse quello che non aveva un nome manovrava i loro fili come se fossero marionette senza possibilità di scelta... o forse, quella cosa dava molto per scontato. Dunque si trattava di questo: imprigionarsi a vicenda, riducendo una a una le vie di fuga dell'altro, convincendolo che non voleva affatto fuggire, che quella trappola era bella così com'era, che non faceva male, che anzi teneva lontano il dolore.
Evey premette il proprio corpo contro il suo avambraccio con una discrezione superflua. Jelonek le circondò il busto in maniera più stretta, come accorgendosi solo in quel momento del suo errore. Non c'era spazio per le esitazioni, non c'era spazio per le riserve che gli trattenevano gli arti, che lo dominavano. Lei sapeva come si faceva, per quanto lui potesse inutilmente tentare di accomunarla a lui sotto il titolo di una qualche goffaggine. Non aveva accettato i suoi tempi stentati nella Foresta Proibita e non li accettava ora. Jelonek sarebbe stato libero fare quello che voleva, come voleva, a condizione che fosse ciò che voleva anche lei; ogni ritardo, ogni tentennamento, avrebbe incontrato una direttiva molto più franca e urgente da parte di lei.
Quelle erano le condizioni. Jelonek avrebbe finto di accettarle, mettendo da parte i suoi ripensamenti... sempre se poteva definirsi così la sua incapacità manifesta nel ritrovarsi in quella situazione.
(Come potrai distinguere la finzione dalla realtà? Fingerai, ma di fatto le accetterai. Hai finto così bene da raccontarle della Cella Grigia, di Eloise, di cose che non avrebbe mai dovuto sapere. Cose che non sa nemmeno Mandy.)
Era necessario.
(Continuerai a lasciarti manipolare, finché continuerai a credere alla favoletta che quello che muove i fili sei tu.)
Questo è in mano a lei. Perché io non saprei che cosa fare.
(Tu non sei come lei. Non più. Tienilo bene a mente.)
Era proprio necessario? Aveva una qualche importanza, ormai? Rimaneva qualcosa che importasse davvero?
(A parte il Piano?)
Evey aveva capito molto prima di lui che quella reazione muscolare inappropriata alla situazione fosse un riflesso, che certi ricordi non-ricordi avevano reso inseparabile dalla sensazione di qualcuno che gli si avvicinava, qualcuno o qualcosa che stava per toccarlo, e non certo per accarezzargli i capelli o per...

-Non puoi saperlo-

E questa volta le parole vennero sbattute tra lingua e palato senza passargli per la mente. Avrebbe dovuto perdonarsi? Era colpa della vicinanza che lei imponeva (come se sapesse), dell'effluvio della sua pelle che insaporiva di panna i suoi biscotti, dei suoi capelli che lo invadevano, così vicini... Del resto, lui era sempre stato così bravo a fornire a se stesso tutte le scuse; era facile, se le si confondeva con le accuse.
Jelonek abbassò lo sguardo solo per un attimo, sulle labbra di lei che lo incatenavano a quella indecisione, e sorrideva, sorrideva sempre quando sbatteva la testa all'impossibilità di poter sperare. Sapeva solo sorridere in quel modo, e solo per quel motivo. Perché era rassegnato. Avere le spalle al muro aiutava. Faceva aprire gli occhi sulla realtà; la sua realtà, in quel momento, incombeva con più domande che risposte, rendendo del tutto inutile la sua Legilimanzia.
Ma, del resto, era mai servita davvero a qualcosa?

-Le ferite peggiori me le sono inflitte da solo-

"Hanno cercato di farmi credere anche a questo", le aveva detto, quando lei gli aveva chiesto delle cicatrici. Lui ci aveva creduto. Ma in quel momento non stava parlando della sua invidiabile collezione ambulante di piccoli capolavori. Parlava del suo fardello, la sua palla al piede che segretamente si trascinava ovunque. Ferire era il modo migliore per ferirsi. Se quel semplice concetto aveva un suono così retorico, doveva per forza contenere un granello di verità, per quanto insulso.
(Quando ti avvicini so che sto per farti del male. Non importa in che modo. È un dolore che non si impara mai a sopportare del tutto, quello di essere diventati carnefici. Non si impara mai a sopportarlo del tutto, ma io sono diventato abbastanza bravo.)
E ora le narici di lei si riempivano del pungente aroma d'anice dell'assenzio, che la seduceva. Era ipnotizzata dalla prossimità al suo collo, che non aveva mai smesso di essere pericolosa, dal primo momento.
Jelonek non trattene il fiato quando quei pensieri assassini si riversarono nella testa di lei, mano a mano che i ricordi facevano il loro corso e Evey assaporava di nuovo quell'antica conquista avvicinando più i denti che le labbra alla giugulare che pulsava, risaltava nel suo stanco trionfo di vita, gli attraversava il collo in un invito sporgente. Il potere di decidere della vita e della morte, della sofferenza e del sollievo. Questo glielo poteva regalare?
Niente ha importanza. La mia sopravvivenza meno di tutto.
Jelonek non trattenne il fiato. Socchiuse gli occhi, volendo per un momento - solo un momento - tornare a essere la vittima, consegnarle il coltello dalla parte del manico. Portarlo in continuazione lo rendeva così debole...
Giunse invece uno sfioramento leggero, così lei gli rimandava il messaggio che la pace non era per lui e non sarebbe mai arrivata.
(Non bruciava. Non usciva del sangue. Sei sicuro che fosse questo ciò che volevi?)
Mentre Evey si rimproverava per quei sussulti crudeli, quell'istinto impossibile da sradicare, lui avrebbe voluto prenderle la testa e accompagnarle la bocca proprio su quella vena che per un attimo aveva desiderato assaggiare con tutta se stessa, e non per il gusto del sangue, ma perché aveva desiderato vincere, essere qualcosa di più di un'insulsa pedina, prevalere e con un morso vendicarsi di quello che ancora non le aveva fatto.

Burning feathers, not an angel
Heaven's closed , Hell's sold out
So I walk on the earth, behind the curtains, hidden from everyone,
Until I find a new life to ruin again



Jelonek tornò a guardarla. Aveva una nuova luce negli occhi, e il sorriso si era trasformato in un fantasma, il fantasma in un demone. Con gli ordini non si poteva sbagliare. L'obbedienza ammutoliva ogni protesta. Si avvicinavano sempre più, per mano, all'orlo di quel dirupo, ma lei di tanto in tanto spiccava una corsa, al punto che lui faticava a tenerle dietro.
Era stata la Vera Evey a dargli quell'ordine perentorio. Alla Vera Evey non si poteva dire di no, né lui avrebbe avuto intenzione di provarci.
Lei gli aveva già preso la testa, premendola contro la propria. Le sue labbra avevano trovato la loro strada, per incontrare le sue, e lui non si sarebbe mai opposto. La strinse ancora più contro il suo corpo, assecondando i suoi movimenti; era sempre meno se stesso. Evey beveva il suo assenzio senza rimpianti, J. F. si divertiva a succhiarle l'anima, un respiro alla volta. La lingua di lui le penetrò la bocca senza più ripensamenti, tanta era la voracità di quel risveglio. Ricercò la sua, ricacciandola dentro, prevalendo in quel duello di breve durata. La presa sui fianchi di lei divenne convulsa, come se volesse strapparle prima i vestiti, poi il corpo, di dosso, spogliandola di qualsiasi traccia di umanità.
"È sbagliato, non c'è mai stato niente di così sbagliato", aveva pensato Jelonek, poco prima.
È giusto. Nulla è mai stato così giusto., diceva J. F., e quella foga non zittiva i sussurri dalle teche, li rendeva più acuti e disperati, e lasciava che lui e Evey ridessero in faccia a tutti loro, una sfida beffarda, l'accettazione totale dell'abbandono al nulla.
(Ancora lei correva, correva in discesa, anche se la strada stava finendo, ma lei era voltata verso di lui e non poteva accorgersi di quello a cui stava andando incontro... il niente, l'oblio, l'orrore.)
Si separò da lei quasi bruscamente, allentando la presa sul suo busto ma solo a malapena. La guardò, mantenendo la vicinanza che lei aveva ricercato. Il brillio nei suoi occhi diceva che Lui era tornato: l'uomo che era emerso per qualche secondo nella rimessa delle barche. La Falsa Evey non lo aveva temuto allora, non c'era ragione per nasconderlo ora che anche lo sguardo di lei era cambiato. Era cambiata la persona che lo fissava da dietro quegli specchi.
Sei sicura di non volermi fare del male, Evey?

Do you really know me? I might be a God.



J. F.
 
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- Lo so, invece. - disse in un nuovo sibilo, premendo le unghie sulla mano che intrecciava alla sua, al di sotto di quel laccio d'oro. Quello non era dolore, ne avevano pieno controllo. Proveniva da loro, non da altri, lo possedevano appieno. E Jelonek non era nella sua cella. Non era sulla barca al Lago, non era nella Foresta, non era ad Hogsmeade, non era nell'Ufficio della Preside. Non era nemmeno nella Sala Trofei.
Era on lei. E lei aveva deciso che non ci sarebbe stato dolore, non c'era dolore. E lei era nella Stanza delle Catene.
Era tornata lì dentro.
Sentiva le pareti comprimersi intorno a lei, l'oscurità avanzava per divorarla ma veniva subito sopraffatta dal fuoco verde e sfrigolante che reclamava le sue carni. Ovunque, nell'aria, sentiva il profumo dell'assenzio invaderle i polmoni, la gola le ardeva tanto da farle male. Quel profumo la tormentava, la chiamava a gran voce, ogni cellula del suo corpo urlava il bisogno di esserne abbeverata. Di nuovo, la Follia Verde le faceva incendiare le vene, ottenebrandole la mente; era come se i suoi sensi si fossero accentuati alla ricerca di quel profumo e della sua fonte, la violenza di quel bisogno aumentava il suo battito cardiaco in maniera disperata, le accorciava il respiro, la faceva sentire vicina alla fine.
Era tornata lì dentro.
Non c'erano urla. Non c'erano combattenti, non c'erano vittime. Non c'era nessuno. Solo lei, lei e quelle labbra, quella lingua che si era fatta familiarmente brutale, rispondendo a quel suo stesso bisogno, come se anche lui fosse malato e stesse cercando il verde antidoto nella sua bocca, proprio come lei. La presa intorno ai suoi fianchi era tanto stretta da farle male, non si sarebbe stupita nel sentire la pelle lacerarsi sotto le sue unghie. Non pensò nemmeno per un secondo di ribellarsi.
Era tornata lì dentro. E non voleva uscirne.

Final celebration of bad hallucination.
Flip a coin and see which way I fall.


Rispose alla sua arroganza con altrettanta, irrispettosa irruenza. Lottò con la sua lingua, la spinse fuori dalla sua bocca per invadergli la sua con la propria, ancora ed ancora, contendersi quell'illusione di potere e controllo condotta solo da quella continua ricerca di assenzio. Non c'era dolcezza, non c'era delicatezza, non c'era alcun sorriso da Tassorosso. C'erano solo loro, le loro labbra unite, la mano di lui ancorata con forza al suo fianco, quello stupido laccio che univa ancora le loro mani destre.
Quello stupido laccio...
Lo guardò in ogni centimetro del suo volto quando lui si staccò; si sentiva ansante, come se avesse corso per miglia verso una bottiglia del prezioso liquido verde. Sembrava che i dettagli del viso di Jelonek fossero stati amplificati, le sembrò che ogni minimo difetto fosse diventato un pregio.
Vide quella luce nei suoi occhi, ne riconobbe l'espressione. Vide Lui, l'uomo della rimessa, l'uomo pericoloso che l'aveva fatta tremare.
Tremava ancora, dentro.
Le labbra di Evey si schiusero in un sorriso sinistro; non c'era gioia, non c'era felicità. Era un sorriso soddisfatto, appagato e non appagato al contempo, avido, come se fosse perfettamente consapevole che il bello doveva ancora venire. Ciao, di nuovo.

I see your dirty face
High behind your collar
What is done in vain
Truth is hard to swallow
So you pray to God
To justify the way you live a lie


Con un gesto improvviso, quasi sprezzante, urgente, Evey strappò via il nastro d'oro che teneva unita la sua mano a quella di Jelonek: ruotò completamente con il busto verso di lui ed avvicinò ancora il volto al suo. Entrambe le mani salirono tra i capelli scuri, si avvinghiarono alle ciocche con rabbia, con urgenza, e di nuovo tuffò le labbra sulle sue, rubandogli un secondo bacio, violento quanto il primo, in cui, questa volta, non si risparmiò di mordergli il labbro inferiore. La Follia Verde le conduceva le dita lungo la sua nuca, la portava ad esplorare il suo volto alla ricerca dell'assenzio, portava alla sua attenzione il calore del corpo di Jelonek, la cui vita poteva sentire pulsare attraverso il suo petto, tanto avvinto al suo da poterne avvertire il martellare sullo sterno, la giugulare sotto il suo pollice sinistro, che sembrava rivendicare l'affondo dei suoi canini, come l'ultima volta.
Era ancora malata, aveva sempre saputo di esserlo, quella era soltanto un'altra prova. Evey aveva capito: non doveva combattere quella malattia, quell'isolamento, non doveva averne paura. Doveva cullarvisi, accettare di sentire la Follia scorrerle nel sangue e bruciarle la gola. La sua condanna, la sua pena, non era stata quella di essere malata, quanto quella di tentare di scampare alla malattia, illudersi di averla sconfitta, ma questa era emersa, ancora, ed ora la travolgeva. Era ancora malata e poteva sentire l'assenzio su di lui.
 
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So say goodbye to the world
We are the dead that walk the earth
Scream your lungs out
Wait for laughter
You don't have to wait forever
It's the next disaster



J. F. osservò il suo cambiamento. La vide liberarsi senza esitazione del laccio dorato, il rimando superfluo a una condanna che solo per un attimo non aveva avuto nulla di amaro; la vide rifiutarsi di soccombere sotto l'irruenza che la voleva sottomessa, fragile e vulnerabile. Fu proprio la sua vulnerabilità che Evey (la vera Evey) si scosse di dosso con gesti violenti carichi di sprezzo (quello per la persona che era stata, quello per chi l'aveva biasimata, per chi aveva visto solo il sangue colare dai suoi denti dimenticandosi la muta richiesta d'aiuto dei suoi occhi). Fu lei a riempire gli scarsi millimetri che ancora rimanevano in gentile concessione alle decenza, pretendendo un contatto che da caldo si faceva invasivo, distruttivo, deleterio.
Neanche bollente. Ustionante.
L'uomo che era stato trascinato a forza via dalla Cella Grigia era emerso sul volto di Jelonek, senza più alcuna maschera. Aveva in faccia i suoi stessi polpastrelli gonfi e sanguinanti, i frammenti seghettati di unghie strappate, i solchi nella pelle incisi una parola alla volta, un sussulto alla volta. Quell'uomo guardava la ragazza che era stata schiavizzata da un morbo omicida tra quattro pareti, aveva lasciato indietro la sua vita e tutto ciò che aveva conosciuto per abbandonarsi alla follia, immagazzinando ricordi tossici. Quell'uomo e quella ragazza si capivano, perché parlavano il linguaggio delle ombre.
Ma il bisogno che emergeva dall'urgenza spietata ed egoistica con cui Evey si era aggrappata a lui, con cui gli aveva sospinto di nuovo la lingua in bocca, imponendo quella che doveva essere una forma rudimentale di supremazia, richiamava proprio l'istinto principe, quello che in lei la Stanza delle Catene aveva risvegliato in tutta la sua maestosità; quello che, invece, la Cella Grigia aveva in lui sradicato. Lo spigolo contro cui battere la tempia era quello. Nel momento di maggiore vicinanza, di comunione gnostica tra le parti più danneggiate delle loro anime, era ancora più evidente quando quei pezzi non si potessero incastrare senza rompersi. Senza provocare un'esplosione che avrebbe disseminato morti e feriti.

Save all your prayers
I think we lost today
There's no morning after
And no one's around to blame



Nella disarmonia, nella lotta per sopravvivere, per esserci e per vedere, suonava la loro armonia maledetta, nella sua disarmante discordanza di note, nei suoi versi sgradevoli. Nella follia, trionfava la loro razionalità. O almeno, quella di J. F.
L'incendio era arrivato, l'aveva divorata con le sue fiamme verdi. Questa volta era la Vera Evey a saggiare i suoi punti vitali, ad assaporare la possibilità di togliergli la vita proprio in quel momento. La Vera Evey era bisbetica; non lo avrebbe mai ringraziata per averla portata ad avere il controllo sugli arti pallidi della Serpeverde, anzi, l'avrebbe fatta passare come una sua colpa, qualcosa da cui lui non avrebbe mai potuto farsi perdonare - eppure, avrebbe preteso che lui cercasse di ottenere quel perdono in tutti i modi possibili.
Come cominciare? J. F. comprendeva quelle dinamiche. Comprendeva che Evey era in caduta libera, e la sua comprensione e le sue sensazioni erano un tutt'uno.
(Prima della Stanza delle Catene, Evey era stata una ragazza, una bambina, forse. Quando vi era uscita, cosa ne era stata delle sue prospettive? Era un'assassina. Non aveva veramente ucciso, ma era stata disposta a farlo e bastava pensarci un attimo per capire che non c'era differenza. L'assassinio era uno specchio. La tappa finale della sua maturazione, qualcosa che non l'avrebbe portata alla vita adulta o alla vecchiaia, ma direttamente alla morte. Non importava che loro non fossero morte. Non importava che lei non si fosse uccisa. Cosa rimaneva, da uccidere?)
Mentre la sua bocca si abbeverava nel ruscello rosso, allo stesso modo in cui ora scavava nella sua bocca, Evey aveva vissuto tutto quello che ancora le rimaneva da vivere, aveva visto quello che ancora le rimaneva da vedere. Una costellazione di esperienze toccate, abusate e infine gettate alle spalle. Come poteva l'assenzio che ora le riempiva le narici e le bagnava la lingua non esercitare quell'attrazione su di lei, quando quell'assenzio era... tutto?
L'assenzio era un brivido sulla schiena. Il calore di due braccia maschili che l'avvolgevano. Era l'estremo. Era l'unione assoluta e mortale.
Jelonek separò le labbra dalle sue. Un giorno non molto lontano l'avrebbe allontanata da sé, arrabbiandosi con lei per essere tornata indietro a cercare di salvarlo. Ma quel giorno, sarebbe stato un'altra persona, una che per un secondo avrebbe desiderato davvero che lei fosse destinata a qualcosa di diverso - per un secondo.
Quel pomeriggio, in quella Sala Trofei ormai molto lontana, completamente trasformata nella Stanza delle Catene, J. F. la guardava negli occhi, traendo solo sentimenti di vittoria e impagabile trionfo dalla totale assenza della Falsa Evey dietro le sue iridi, diventate qualcosa di ammaliante, alcolico e letale come lo stesso assenzio che lei gli vedeva sul corpo.
La mano di J. F. si portò dietro la testa di lei, fissandosi tra i suoi capelli. Era giusto così.
La spinse con delicatezza e decisione verso il suo collo, là dove la giugulare pulsava, là dove la sua vita richiedeva di essere strappata, per un bene più grande.
(Tornare a essere la vittima... tornare a tremare... È questo che vuoi?)
Poteva avvertire la vicinanza dei denti di lei alla sua vena, poteva respirare quel profumo dimenticato che ora sembrava così diverso, provenire dalla sua morbida capigliatura avida di riflessi. Era giusto così. Andava bene.
Le sue dita le accarezzarono la testa, poi le scostarono alcune ciocche dalla guancia, scoprendole l'orecchio. Avvicinò le labbra al padiglione, sfiorandone la sensibile cartilagine.

-Fallo-

Quella voce era familiare, quella voce era sconosciuta.

-Sei libera-

Piegò la testa da un lato, la vena che risaltava più che mai, esposta, pronta a servirla.
Perché era sbagliato, ed era proprio questo a renderlo giusto.


Take this life, I'm right here.



J. F.
 
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Remember what the dormouse said:
"Feed your head. Feed your head. Feed your head"



La Follia Verde le incendiava il sangue e le ottenebrava la ragione. Non riusciva a realizzare nulla se non il bisogno costante di avere quell'assenzio su di lui; non berlo le avevano detto, non berlo. Ma perchè non avrebbe dovuto? Il suo corpo ne necessitava, lei era malata. Solo l'assenzio le avrebbe dato quel sollievo, sapeva che sarebbe morta se solo avesse distolto le labbra dalle sue.
Gli occhi chiusi, le dita affondate quasi brutalmente tra i suoi capelli, Evey baciava Jelonek quasi senza rendersi conto di farlo. Sentiva quell'acre sapore di anice nella sua bocca e voleva, doveva continuare a nutrirsene incessantemente. Perchè era malata.
Non era mai uscita da quella Stanza, era rimasta lì dentro ad urlare e ruggire come un drago ferito, arrabbiata, impaurita, spezzata, furiosa perchè le avevano tolto quello che le spettava di diritto, il suo assenzio. Gliel'avevano sottratto, erano strisciati in quell'umida prigione come ratti e gliel'avevano portato via per il suo bene. L'avevano ferita e gliel'avevano versato nel sangue, ma Evey non era guarita; per qualche motivo, era rimasta malata, bramosa di quell'ambrosia smeraldina, tormentandosi e graffiandosi per il disperato bisogno di nutrirsi. Ma loro gliel'avevano portato via. E lei era sprofondata nell'oscurità della codardia e della colpa quando avrebbe semplicemente voluto urlare e distruggere, cercare ciò che le spettava.
La porta si era aperta e lui era entrato.
L'uomo della Rimessa delle barche si era piegato su di lei, osservando come fosse stata incatenata in quella stanza. L'uomo dell Rimessa delle barche le stava portando la salvezza, aveva spalancato la porta e si era cosparso di assenzio lui stesso: doveva portare a termine quello che aveva cominciato, diceva, doveva affondare le sue zanne nella carne e dare sfogo alla sua malattia.
Il respiro di Evey era affannoso: guardava la giugulare pulsante e lucida di assenzio che la chiamava a gran voce. Il petto le si alzava e le si abbassava in modo innaturale. Deglutì: era giunto il suo momento. Lui diceva che doveva farlo, lei voleva farlo.
E questa volta non ci sarebbe stato Sidney Welsh a fermarla.
Abbassò le labbra sulla gola di Jelonek, concedendosi un secondo per respirarne il profumo intenso. Era così invitante... le sue parole le ardevano dentro, portandola ad affondare le unghie nelle sue scapole per il desiderio.
Finalmente.
I denti di Evey penetrarono nella carne che le veniva offerta. Ebbe un moto di paura mista ad eccitazione nel riconoscere il sapore ferroso del sangue che si cosparse sulle sue labbra; lo accolse nella bocca, sempre più avidamente, l'intenso gusto di anice che le riempiva il palato e le si spargeva sulla lingua. Chiuse gli occhi, totalmente inebriata, mentre l'ultimo, debole sprazzo di umana razionalità le sfuggiva dalle dita come acqua. Si aggrappò a lui, continuando a bere, il suo corpo che, da solo, si muoveva e si stringeva al suo, mettendovisi a cavalcioni e intrappolandolo sotto di lei. Percepiva il suo calore attraverso quei miseri centimetri di stoffa, dietro la pelle, nel sangue che passava dalle sue vene alla sua bocca, sentiva la vita che lo animava martellarle contro il petto. Era ciò che aveva sentito anche l'ultima volta, ciò che l'aveva fatta vivere un secondo prima che la strappassero via perchè pericolosa e malata. Ora non potevano impedirlo; ora lei stava rinascendo, emergeva dalle tenebre di quella stanza, fissava la luce che penetrava dalla porta lasciata aperta da lui, sapeva che le loro catene non l'avrebbero più contenuta. Poteva uscire, lui le stava dando la forza di oltrepassare quella soglia e cercare il suo assenzio sulle gole di tutti coloro che avrebbe incontrato. Lei non l'avrebbe deluso.
Sono libera.
Si staccò dalla fonte del suo nutrimento, fuori di sè, la testa rivolta al soffitto e gli occhi ancora chiusi. La cascata di ebano dei suoi capelli le si sparse disordinatamente sulla schiena e sulle spalle. Si morse le labbra, avida di possedere ogni singola goccia di sangue e assenzio che aveva ricavato da lui; nulla andava sprecato, quel sapore le colava nella gola, bollente, infiammandola e al contempo calmandola. Il tormento, la rabbia, la colpa scemavano secondo dopo secondo mano a mano che il sangue di Jelonek riempiva quel percorso. Non c'era codardia, non c'era paura, non c'era tempo e non c'era spazio.
Non c'è dolore qui.
Abbassò la testa e riaprì gli occhi, fissandolo con un sorriso serpentesco. Guardò il suo viso, stanco e segnato, eppure non ricordava di averlo visto più vivo. Osservò i riflessi sui capelli scuri, che l'attiravano come una gazza è attirata dai luccichii confusi nel prato. Le sue dita percorsero i centimetri di barba sfatta, tanto vicini da poter percepire la propria pelle pungere nel ricordare il loro contatto.
Non era mai stato tanto attraente. Intrigante.
Come se fosse fatto interamente di assenzio.
Sono libera. Sei libero.
Le labbra di Evey erano ancora rosse, nonostante avesse leccato via tutta l'essenza sottratta; si abbassò di nuovo sulla sua bocca, rubandogli un bacio brutale in cui gli fece assaporare il suo stesso sapore di sangue, il suo stesso sapore di assenzio... una preziosa ricompensa, mentre il sangue ruscellava da quella vena squarciata che ancora attirava la sua attenzione. Presto vi sarebbe tornata sopra, presto sarebbe tornata ad essere insoddisfatta ed affamata, ma ora...
Sentiva di non essere assetata solamente della calda consistenza del suo sangue. Voleva il suo calore, lo reclamava. Voleva sempre di più.
Spinse a forza nella sua bocca quel sapore ferroso, anice arrugginita.
Una ragazzina entrò nella Stanza delle Catene. Una ragazzina pianse e gridò il nome di sua madre. Una ragazzina urlò mentre un drago incatenato ruggiva, bruciava e divorava. Una ragazzina continuò a chiamare sua madre. Un uomo arrivò nella Stanza e liberò il drago.
 
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view post Posted on 9/1/2014, 02:40
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Quello era il problema della paglia incendiata. Spandeva un odore intossicante, di morte e distruzione, di cose familiari e perdute; illuminava a giorno con l'alta fiammata, riempiva le orecchie con il suo evocativo crepitio. Ma bruciava in fretta. Si consumava prima di poter davvero distruggere qualcosa.
E la distruzione, quella vera, richiedeva tempo.
La Vera Evey era nata tra le sorgenti verdi dell'assenzio più puro, una superficie su cui si riflettevano increspature di incubi collettivi. Una volta che aveva assaporato gli smeraldi, avrebbe potuto accontentarsi di qualcosa di meno? I suoi canini erano a caccia di preziosi. Cercavano cellule, cercavano DNA, in una parola, cercavano quelle effimere tracce di umanità che gli erano rimaste attaccate al corpo come strascichi di appiccicoso zucchero filato alla ciliegia incastrati tra le dita - quelli che si è costretti a leccarsi dai polpastrelli anche se ormai il bastoncino è stato buttato e il sapore dello zucchero ha stancato da un pezzo.
La Vera Evey era appena arrivata al luna park; il sapore dello zucchero filato non l'aveva ancora stancata, anzi. Era venuta proprio per quello, vi si era gettata a capofitto, e più la sua lingua banchettava con quel saccarosio vermiglio, più la sua gola ne reclamava.
Perché il sangue di J. F. non si mescolava all'assenzio; il sangue di J. F. era assenzio. Si depositava nella bocca di lei, attaccata al suo collo come a una fonte di vita (o di morte: perché la morte, in quel caso, e per loro, esercitava un'attrattiva maggiore), si travestiva di ambrosia e si rendeva essenziale, indissolubile, irrinunciabile. Il sangue di J. F. era assenzio, era dipendenza, era malattia; il sangue di J. F. era veleno.
E ora scorreva anche in lei. E ora schiaffeggiava le sue arterie, accarezzava i suoi capillari, la rendeva viva.

All you ever wanted
All that you desire
(Walk the line with me)
I will take you higher
I feel your body shake



Le labbra di J. F. si mossero quando la pelle tesa del suo collo registrò l'invasione dei denti della studentessa. Il suo corpo aveva ormai drasticamente ridimensionato i segnali di allarme: ricevette soltanto un pigro pizzico. Quello era un terreno conosciuto, e J. F. sapeva dove mettere i piedi. Sapeva cosa provare e volle provarlo, tenendo tutti i sensi concentrati.
(Il sangue usciva perché qualcuno lo voleva. Era inerme contro strumenti aguzzi di ogni tipo che gli penetravano la pelle; c'era una ferita, che avrebbe pulsato, si sarebbe infettata, sarebbe diventata crosta e poi cicatrice. Aveva atteso il dolore e quello era arrivato. Lo ringraziava. Ringraziava chi lo stava ferendo, ringraziava il suo sistema nervoso che ancora funzionava a meraviglia. Era tanto meglio rispetto al solo... vedere. Vederlo negli occhi di Eloise, negli occhi dell'Uomo Simpatico. Sapere. Sapere senza potere fare nulla. Sapere senza averne alcuna certezza. Guardava negli occhi Eloise e l'Uomo Simpatico e impazziva, desiderando che la tortura cominciasse presto e che non finisse mai, perché la Cella Grigia, al suo ritorno, avrebbe aperto le sua fauci, impaziente di fagocitare lui e tutti gli orrori che la sua mente partoriva, quelli che FORSE si sarebbero realizzati, FORSE erano già avvenuti, FORSE stavano ancora accadendo. La Cella Grigia si nutriva della sua paura, dei suoi brividi condivisi con le pietre umide. Mentre il dolore lo cullava. Il dolore gli diceva che...)
... Sono ancora lì dentro.
Si sentì sospingere all'indietro, sul pavimento che aspettava la sua schiena. Evey era su di lui e J. F. seppe che la Serpeverde aveva abbandonato lo zucchero filato per dedicarsi alle montagne russe.
(Era troppo giovane, per quelle.)
E per morire? È troppo giovane anche per quello?
("Too depraved to stay alive. But too young to die.")
Le labbra di lei si erano unite alle sue. Assaporava il suo stesso sangue, assaporava la selvaggia soddisfazione della Vera Evey, la sua gratitudine verdognola e radioattiva.
[sentiva i suoi capelli cadergli ai lati del viso]
Ora desiderava fargli del male, perché era convinta di averne bisogno, e aveva ragione. La Libertà le aveva dato alla testa, si era rivelata una droga con un'assuefazione pericolosa e senza via d'uscita. Aveva vissuto fino a quel momento rannicchiata nel misero angolino di mondo che i suoi sogno le avevano lasciato. Per lasciarla volare era stato sufficiente rivelarle che quei sogni erano di altri, che lei era sempre stata una marionetta manovrata da troppe mani. Chi aveva deciso che andasse salvata? Chi aveva osato vederla come una bambola di carne da trarsi sulle spalle per ottenere una qualche ricompensa? Chi era stato così crudele da metterle quel bavaglio, arginare i suoi istinti, farla vivere con la maschera della vittima?
Se solo potessero vederti adesso. Quale errore credere che le fiamme potessero divorarti, che la morte potesse coglierti senza il loro divino intervento.
Le mani di Jelonek si allacciarono dietro il collo di lei, attirando dapprima la bocca alla sua. Era uno spettacolo, quello, che richiedeva anche lo sguardo della lingua. Respirò piano sulle sue labbra, come se non volesse guastare il momento facendo troppo rumore, dimenticando il codice Morse delle fitte di dolore sul lato del collo, ma poi esercitò una leggera pressione per allontanarla appena da sé.
La vedeva da sotto, ora, e ancora appariva più dominante, diversa dalla posizione di oscena passività cui tutti i fantasmi della sua vita l'avevano costretta. Aveva ancora qualche piccola stilla rossa tra il labbro inferiore e la piega innocente del mento. La firma della sua prima, vera vittoria.
Guardando quel profilo di porcellana maledetto dalla penombra, la paglia che spandeva i suoi fumi arrossandole le guance, ustionate dalle dita di un qualche demone infernale, gli occhi febbricitanti, la bocca assetata ancora aperta, Jelonek pensò che nessun volto era mai stato più adatto alle pieghe eleganti di una maschera d'argento. La rimirò solo per qualche secondo, come si guarda un trofeo; sul fondo del suo sguardo, la certezza che lei lo stesse fissando allo stesso modo lo fece sorridere.
Si portò due dita al collo, quindi abbassò lo sguardo sul sangue luccicante. La mezzaluna tra la barba leggera si ampliò.

-Mandy crederà a un attacco a tradimento da parte della tua volpe?-

La voce era roca, come se non fosse ancora pronta a uscire allo scoperto.
Si alzò a sedere, con Evey ancora attaccata al suo bacino e il braccio destro puntellato all'indietro. Dalla nuova posizione, era tornato a essere più in alto di lei. Il fugace brillio nel suo sguardo nero stava salutando la Vera Evey, dicendole che ora che si erano visti, avrebbero potuto riconoscersi al momento opportuno. Lasciandola con una promessa: quello non era un addio. Ma un "arrivederci, a presto".

I'll play you like a violin
Stay
You will be queen

(and I'll be king.)



J. F.
 
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Lo osservò dall'alto, le labbra incurvate in un sorriso appena visibile in quella penombra. Il crepuscolo si avvicinava, incombeva su di loro ricoprendoli dell'ombra serale, ma nessuno dei due sembrava averci fatto caso. A nessuno dei due importava. Evey lo fissava, sovrastandolo, mentre il suo sangue le scorreva dentro e la incendiava, come se avesse bevuto pura energia, puro potere. Impossibile averne abbastanza, impossibile accontentarsi.
Si sentiva inebriata, si sentiva potente, si sentiva viva e libera. Sentiva di poter fare qualsiasi cosa se solo l'avesse voluto, come se sovrastare lui significasse poter sovrastare tutto il resto.
Continuò a guardarlo, nella penombra, le sue dita appoggiate al suo torace e al suo petto: Evey lo sentiva, al di là della vista, poteva percepire la vita dentro di lui, quella stessa vita di cui si era abbondantemente nutrita e che ora scorreva anche dentro di lei. Seppe che non ne avrebbe mai avuto abbastanza, seppe che ne avrebbe voluto ancora, fino a prosciugarlo, perchè mai ne sarebbe stata sazia.
Lo guardava dall'alto, sentendosi quasi ansimante, come se fosse stata in apnea troppo a lungo; come se il suo sangue le avesse donato nuovi occhi, Evey lo guardava, sentendo di non aver mai desiderato nient'altro tanto ardentemente.
Assenzio.
Le sue unghie sprofondarono nella sua carne, al di là della stoffa dei vestiti, percependo il rilievo di quelle cicatrici; gioì al pensiero di potergliene procurare lei stessa. Così come lui si stava imprimendo dentro di lei, così come lui aveva osato sciogliere le catene e liberarla. Gli avrebbe mostrato la sua gratitudine nelle vie che lei conosceva, nelle vie che anche lui reclamava. Quelle per cui l'aveva liberata.
Il Liberatore.
Il suo Liberatore. Colui che le avrebbe mostrato il cammino per uscire e tornare nella Stanza, la loro dimora, il loro palazzo, il loro castello. La tana in cui avrebbero portato le loro prede, le vite da dissanguare e di cui nutrirsi. Lui gliele avrebbe indicate, l'avrebbe guardata prenderle, una dopo l'altra. Ed Evey lo avrebbe reso orgoglioso. Ghignò quando lui l'attirò verso le proprie labbra, che Evey divorò senza farsi sfuggire una singola goccia d'assenzio.
Il suo corpo si muoveva sopra a quello di lui, simile ad un'onda marina, seguendo i movimenti di un bacio arrogante che, ancora una volta, si rivelava una lotta di potere tra i due. Le mani di Evey passarono sotto le sue spalle, intorno al suo collo, avvinghiandosi come un serpente s'avvinghia alla preda. A lungo scambiò il suo sapore con lui, fino a quando non fu più possibile distinguerlo dal proprio. Sentiva nella sua bocca l'irresistibile essenza d'anice e sangue, tanto che fu come se fosse tornata a nutrirsi della sua giugulare, ma così... così era diverso. Per qualche motivo, la sete aumentava, sentiva il suo corpo, la sua pelle, reclamarne ancora, inspiegabilmente incontentabili. Le sue vene formicolavano, la mente era ottenebrata, la Follia Verde si faceva più pressante ed incalzante, le bruciava i polmoni, la faceva sentire quanto mai febbricitante...
Respirò profondamente quando si distaccarono. Rimase su di lui, ad occhi chiusi, ad assaporare quella sensazione di leggerezza e potere che continuava ad attanagliarle il bassoventre.
Riaprì lentamente le palpebre, ponendo due dita sulle sue labbra dopo aver udito le sue parole.
- Mia la volpe, mie le zanne... - sussurrò dolcemente. La Preside (chissà che sapore aveva il suo sangue, Evey si chiese se sarebbe stata tanto fortunata da saggiare anche il suo un giorno) avrebbe subito intuito una vicinanza tra loro, vicinanza che era stata severamente proibita. Il ricordo di quella proibizione le faceva ardere la gola per la sete, le metteva voglia di tuffarsi a bere da Jelonek ancora più ferocemente, rendeva il tutto più...
Eccitante.
Non sarebbe stato saggio dichiarare che la volpe dell'unica persona che aveva bevuto sangue umano all'interno del castello improvvisamente aveva preso esempio dalle voglie della padrona. Evey spostò lo sguardo sulla volpe dormiente, per poi riportarlo sul suo Liberatore.
- ... ho sentito che il professor Moody possiede delle piante molto pericolose. Mordono, dicono. E si dice anche che il Fennec del professor Von Valentine sia particolarmente violento. - mormorò ancora, allargando il sorriso. Venne ipnotizzata dalle dita dipinte che Jelonek si era posto sulla ferita. Il sangue, nero nell'oscurità che avanzava (attorno e dentro di loro), la chiamava e l'attraeva, distraendola e rischiando seriamente di farle dimenticare ciò che stava dicendo.
Valerius Von Valentine, l'ultimo e il più testardo tra coloro che avevano cercato di imbrigliarla. Tutti li aveva allontanati, tutti era riuscita a tagliarli fuori, tutti i suoi legami umani, meno lui. I suoi tentativi, le sue insistenze, erano qualcosa che le facevano vacillare il sorriso, qualcosa che le faceva montare una rabbia ruggente nel petto. Si chiese quanto l'avrebbe assillata se l'avesse vista in quel momento, mentre si protendeva appena verso le dita del Liberatore, sfiorandole con le labbra ed assaporandole avidamente nel leccare via le tracce di sangue sulla sua pelle. Nell'ospitare il dito indice all'interno della propria bocca, lo sguardo di Evey incontrò quello di Jelonek, in cui volle annegarsi con irruenza, spalancandogli le porte della mente e lasciandolo entrare, come tante altre volte aveva fatto, ma sapendo che, questa volta, sarebbe stato diverso. Questa volta vi avrebbe trovato...
... Zeboim che la guardava con occhi neri. Occhi neri in cui si rifletteva l'oro, lo stesso oro delle targhette dei morti alle sue spalle.
Morti che custodivano quelle mura, morti che giacevano sul pavimento.
Morti in cui lei stessa aveva affondato i denti nella carne, come un corvo che banchetta, come il Corvo che l'aveva guidata.
Morti che, ora, urlavano. Urlavano nel vento e nella tenebra.
Evey si irrigidì, non potendo evitare di guardare Jelonek. Percepì la gola bruciarle, non di sete, questa volta, ma del semplice, orrido sapore che popolava i suoi incubi. Gli occhi blu si allargarono lentamente, il respiro si fece corto. Tentò di muoversi, di togliersi dalla posizione oscena sopra di lui e mettere quanta più distanza poteva dalla fonte dell'odore di ruggine, mai stato più forte, ma il massimo che ottenne fu quello di arretrare appena e sedersi sul pavimento freddo, gli occhi fissi sull'incisione nera. Si sentì la mano tremare nel momento in cui la portò alla propria gola, così orrendamente accesa da quel gusto di ferro, come se potesse trapassare la propria pelle e toccare quel sangue ingerito che ancora le colava giù, caldo e denso, per accertarsi di averlo davvero fatto e che non si trattasse solamente di un incubo.
Aveva il cervello bloccato. Il respiro corto, mozzo, gli occhi allargati e fissi sulla ferita che lei aveva fatto. A lui. Cercò di deglutire, ma anche il groppo che le si era formato in gola sapeva di sangue. Del suo sangue.
No... per favore, no... non ancora... non di nuovo...

Edited by Evey - 10/1/2014, 02:13
 
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view post Posted on 10/1/2014, 05:26
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Somebody told me I should do what they told me
But there's a hole in that plan and I'm tearing it down



C'era da aspettarselo. Dopo la scorpacciata arrivava il mal di stomaco; dopo la corsa a rotto di collo sulle montagne russe arrivavano le vertigini. Questo insegnava l'esperienza, questo insegnavano tante visite al luna park. Ma Evey Atkinson non frequentava i luna park troppo abitualmente. Anzi, c'era stata solo una volta, e per una visita molto breve - con un'indigestione e una nausea decisamente troppo duraturi.
Era questo che insegnavano, dopotutto. Sempre, tra quelle quattro mura come in qualsiasi altro posto. Non era possibile mettere il piede oltre la linea gialla; non era possibile scrivere sulle caselle nere nei cruciverba, né fare uscire i pezzi dalla scacchiera. Si lanciavano i dadi e si contavano i pallini sulla faccia vincente, si univano i puntini seguendo l'ordine prestabilito, si immagazzinavano nozioni su come utilizzare la propria bacchetta infiocchettata per ferire, ma le si accatastavano in un angolino remoto del cervello, sotto la scritta NON SI FA.
Cosa risultava da tutte quelle didascalie? Da tutte le menti indottrinate che indottrinano, da tutti gli schiavi che schiavizzano?
Bastava davvero un morso sul collo a liberare Evey Atkinson da anni di catene di convenzioni, da secoli di gabbia?
(A lui era servita una vera Cella. E delle vere catene.)
Quella lunga prigionia era iniziata la prima volta che qualcuno aveva detto loro "DEVI". Era tutto un inganno. Inculcavano loro una lingua che non veniva veramente parlata nel mondo reale. Erano figli, erano allievi e discepoli di un mondo completamente privo di madri, maestri e guide. La realtà era meno amara. Ci si poteva riempire lo stomaco di zucchero filato e si poteva fare il giro della morte senza cintura. L'indigestione era un'invenzione. E lo era anche la paura.
Evey era esplosa come una supernova nel suo atto di vanità finale, con una cresta siderea color fiele. Ora tornava a ricercare il contatto con la pietra, ora si riempiva i pensieri di argilla e cemento a presa rapidissima. Aveva osato troppo. Nemmeno le sculture più realistiche e dinamiche si possono permettere una passeggiata dopo l'orario di chiusura del museo; sarebbero stati guai. Evey si affrettava a ricoprirsi del drappo della propria virtù e tornava mesta al suo piedistallo, pronta a tornare a essere ammirata da lontano, restaurata da mani fredde e invadenti. Nessuno avrebbe notato quella lacrima cristallizzata nel marmo. I moti selvaggi di un momento in cui aveva... potuto essere qualcosa di diverso.
Ma Jelonek la notava. Jelonek non vedeva altro, nella cornice sempre più improbabile ma sempre più giusta di quella Sala Trofei abbandonata.
Non avrebbe saputo cosa fare, in mille e più circostanze simili. Il suo scalpello era senza punta e le sue mani non conoscevano alcuna grazia. Del resto, perché lei seguisse davvero quello che tanti altri avevano soffocato, lui avrebbe dovuto romperla, pezzo per pezzo. C'era qualcuno intrappolato lì sotto.
A quel punto, qualsiasi mossa si sarebbe potuta rivelare un enorme errore, ma J. F. non aveva mai avuto tempo per preoccuparsi degli errori. Non era nemmeno facile, per lui, definire un errore. I suoi occhi continuavano a studiare lo spirito che si era dibattuto tra quelle forme e i pensieri che si dibattevano implacabili, come fantasmi durante un esorcismo.
(Ma è un po' tardi, per quello. È troppo tardi, è troppo tardi.)
Jelonek sollevò le ginocchia, separando i loro spazi. Si erano invasi a vicenda
(poteva sentire il proprio battito bussargli alle costole con insistenza, ancora, pum pum pum e questo era normale questo era previsto)
e qualcosa gli diceva che quei centimetri non andassero bruciati, ma conquistati con calma, e da lei. Non l'avrebbe mai costretta a fare qualcosa che non desiderasse dal più profondo.
(O non funzionerebbe. O Mandy potrebbe ancora pensare...)
Appoggiando i polsi sulle rotule, Jelonek le mostrò il palmo ancora cosparso di sangue.

-È soltanto sangue, Evey-

Si passò la lingua tra le labbra, piano. La voce era quella che si era rivolta a lei al tavolo dei Tre Manici. La testa si inclinò leggermente da un lato.

-Mi hai torturato con uno spillo, quel giorno a Hogsmeade. Mi hai tolto le schegge dai piedi, poco fa... quella sì che è stata una cosa hardcore. Questo?-

Si passò di nuovo le dita sul collo, alzando le spalle.

-Puoi fare sicuramente di meglio. Perfino lei ti ha perdonato per averlo fatto-

Gli occhi di Jelonek non avevano abbandonato il viso di Evey nemmeno per un secondo. Senza mutare espressione, continuò, il tono che si faceva impercettibilmente più controllato.

-Conosco qualcuno che ha seguito tutte le regole, convincendosene al punto di farle seguire ad altri. Qualcuno che avrebbe rabbrividito, un tempo, alla vista del sangue. Qualcuno che non avrebbe avuto il coraggio di fare quello che tu hai appena fatto. Ora io non conosco nessuno che abbia arrecato più sofferenza di questo qualcuno. Non conosco nessuno che abbia più morti sulle spalle-

Complice della penombra, il sorriso si adagiò sulle sue guance ispide quasi non visto.

-Non sarà mai un morso a renderti una persona peggiore di lei. Puoi mordere, strappare pelle e ferire. Puoi riempirmi di pugni e distruggere queste stupide teche a calci. Rimarrai sempre una persona migliore. Di lei e di tutti quelli che per una stronzata come questa hanno voluto farti sentire un mostro e lasciarti da sola-

Il palmo di Jelonek scese dal ginocchio, appoggiandosi a terra. Da lì, l'indice abbandonato era rivolto mollemente nella sua direzione.
(Sei un mostro, questo sì. Ma lasciarti sola sarebbe un terribile spreco.)

Charge right in, we dare to fail
No one is giving in, always we live to win
A hunger turns and burns inside of all of us
And it will not be denied



J. F.
 
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- No... -
Le dita di Evey percorrevano febbrilmente la propria gola, come se stesse cercando di estrarre quel meraviglioso sangue che aveva appena ingerito. Gli occhi blu rimasero spalancati, fissi sul palmo della mano che le veniva mostrato anche quando questo fu ritratto. Non batteva le palpebre e sentiva i polpastrelli fallire: il sangue rimaneva a riempirle la gola, rimaneva a scavare nella sua memoria alla ricerca di quel devastante piacere, quell'immenso senso di potere che aveva provato mentre lo ingeriva, strappandolo dal padrone. I polpastrelli fallivano ed Evey provava con le unghie, gli occhi costantemente fissi laddove prima c'era il palmo di Jelonek, sporco di quello stesso sangue nero.
- No. -
Cercava di affondare le unghie nella propria gola, come se potesse, così, rigettare quello che aveva appena divorato come una belva. Se non fossero state le unghie, sarebbe stata quella nausea crescente che, ferrea, le aveva preso le viscere, stringendogliele in una morsa e rifiutandosi di accogliere quel liquido. Sentiva che il suo corpo si ribellava, percepiva le gambe tremarle e la pelle ricoprirsi di un sudore freddo tremendamente familiare. Non osò fare altri movimenti, tranne quello di continuare a grattare il proprio collo, sempre più furiosamente. Continuava a guardare lo stesso, identico punto.
- No! -
La Stanza da cui non voleva uscire, la stanza che aveva adorato, era tornata ad essere una prigione. E ora più che mai, Evey sentiva di non poterne più uscire. Aveva morso, di nuovo. Non c'era nessuna malattia, e lei era di nuovo tornata ad essere un animale. Nessuna Follia Verde, ma lei non era cambiata ed i suoi incubi avevano avuto la conferma: lei era davvero così. Evey Atkinson era realmente una belva che non necessitava di alcuna malattia per piombare sulla gola delle persone.
Non è vero, non è vero! Sono guarita, Sid mi ha dato l'antidoto! Sono guarita!
Qualcosa era andato storto, l'antidoto, su di lei, non aveva funzionato. La Malattia era rimasta nel suo sangue, il suo corpo aveva rigettato la cura; lei era ancora malata, era ancora un pericolo. Si, ne aveva già avuto la conferma, tutte le volte che sognava di uccidere qualcuno, era stato a causa della Follia Verde, e ora questa... questa era la conferma definitiva.
L'aveva rifatto. E l'aveva rifatto a lui.
Alzò lo sguardo, l'unico movimento che le riuscì; incontrò i suo occhi e volle sprofondare nel pavimento.

Non puoi fare a meno di ferire chi ami.


- Ho... bevuto! -
Faticava a parlare. Come se il sangue nella sua gola si fosse coagulato intorno a quel groppo che per poco non le impediva di respirare, la voce di Evey risuonava spezzata e tremante, a fatica usciva dalle sue labbra. Aveva bevuto, di nuovo, dopo un anno in cui aveva cercato di ripetersi, ogni costante minuto, che non era stata lei, che non era dipeso da lei, che era stata la Follia Verde.
Ma non era stata affatto la Follia Verde. Non era stata la malattia, non c'era nulla al di là di quel gesto, soltanto lei. Lei era piombata su Jelonek, lei lo aveva avvolto come una serpe, lei gli aveva affondato i denti nella carne. Lei. Nessuna malattia. Nessuna Shaverne dietro a quel gesto. Soltanto lei.
La nausea la stava facendo respirare a fatica. Le sue unghie non abbandonavano i segni rossi che continuava a scavarsi sulla gola, il respiro si faceva sempre più affannoso. Aveva bevuto.
- No... - scosse appena il capo - ... non sono... non io... -
Non sono stata io.
Era ancora malata. Doveva andare subito in... ovunque. Infermeria, San Mungo, Ufficio della Preside! Era ancora malata e doveva subito farsi curare. Non poteva essere stata lei, lei non era così. Doveva subito farsi ricoverare prima di diffondere di nuovo la malattia perchè quella era l'unica spiegazione. Lei era ancora malata, lei non era guarita.
E Jelonek... perchè era così tranquillo? Perchè rimaneva lì a fare quei discorsi che le ronzavano nelle orecchie? Perchè non aveva paura, perchè non si allontanava? Perchè non provava disgusto? Lei era malata, poteva contagiarlo! Avrebbe dovuto fuggire, scappare a gambe levate e mettersi in salvo, non vedeva il pericolo che stava correndo?
Con il terrore negli occhi, Evey si rese conte di avere il fiato corto. Cercò di respirare più profondamente, ma tutto ciò che riusciva a pensare era quel liquido vitale che le scorreva dentro e navigava verso il suo ventre.
- Ho bevuto... - sussurrò di nuovo, spostando lo sguardo sul pavimento e chiedendosi, come mai, perchè d'un tratto ondeggiasse. Non sarebbe stata in grado di fuggire via se avesse continuato ad ondeggiare - Io... ho... BEVUTO! -
Ruggì come un drago ferito, come se cercasse di far capire a Jelonek quello che aveva fatto, come se lui non capisse. Non potè evitare di fissarlo con rabbia e paura, gli occhi blu offuscati dall'odio e dal terrore per se stessa. La mano che non stava artigliando la propria gola, affondò le unghie sul pavimento, cercando di capire perchè diavolo la pietra fosse così molle da non poterla sostenere. Grattò furiosamente sul freddo materiale e altrettanto furiosamente sulla propria pelle, disgustata da se stessa e da quell'apparato che conteneva il sangue di lui, senza volerlo risputare.
Non con lui, non prendertela con lui.
- Mi dispiace... non volevo! - disse un secondo dopo, abbandonando l'ira in favore della paura e scuotendo il capo nuovamente. Non avrebbe voluto ferirlo, lui tra i tanti, né avrebbe voluto rivolgerglisi contro con quel tono e quella rabbia. Sapeva che non era colpa sua,
(Invece è proprio colpa sua. E dovresti ringraziarlo.)
ma stava provando così tanti impulsi tutti insieme che si era lasciata sopraffare. L'aveva ferito, aveva bevuto il suo sangue, gli aveva fatto dl male, aveva gioito a fargli del male. Non era migliore di chi l'aveva torturato. Avrebbe avuto una cicatrice in più, e la fautrice era lei.
- Non volevo... -
(Si, lo volevi. Volevi nutrirti di lui, volevi penetrargli nella pelle, volevi toccarlo e sconvolgerlo ed essere sconvolta. Volevi stringerlo. E lo vuoi ancora.)
- ... mi dispiace. - sussurrò con un filo di voce, abbassando lo sguardo senza riuscire a liberarsi da quella sensazione di orrore e disgusto, gli occhi spalancati quando avrebbe solamente voluto serrarli e cancellare ciò che vedeva. Ciò che aveva fatto.
Rimase immobile, sentendosi sprofondare nella vergogna e nella paura, desiderando che quella tenebra incombente la avvolgesse e la cancellasse.

Mettere fine a tutto questo.

 
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Your eyes, black like an animal
Deep in the wander
And care for no one but the offspring of your might
Run from the one who comes to find you
Wait for the night that comes to hide



Oh no, che non le dispiaceva. Tutto l'opposto. Jelonek non aveva pianificato nulla di quello che era effettivamente successo, ma del resto, se lo avesse fatto sarebbe accaduto sicuramente tutto l'opposto. Aveva osservato quello che si era dipanato davanti ai suoi occhi, scoprendo che la sua prima impressione di Evey Atkinson si era rivelata giusta - e no, in questo la Legilimanzia c'entrava solo in parte. Non era mai stato bravo a unire i puntini, a comprendere gli schemi. Non esistevano misteri affascinanti come l'animo umano, e in questo lui non faceva eccezione. Per quanto faticasse a provare fascino per qualsiasi cosa non fosse un accostamento di vestiario azzardato o socialmente discutibile.
L'essere umano sembrava incline a reprimere in tutti i modi possibili qualsiasi slancio che facesse perdere il controllo. La vera religione, la vera devozione riguardava proprio quello. Al Dio Controllo si bruciavano ogni sorta di incensi; Mandy ne era una sacerdotessa implacabile.
(Al punto da voltare le spalle. Voltare le spalle all'unica persona che...)
E Evey le assomigliava così tanto, più di quanto fosse salutare...
Avrebbe voluto trattenersi. Avrebbe voluto prestare fede a tutte le promesse che si era fatta, avrebbe voluto essere la persona che gli altri volevano. Jelonek lo capiva. Così come comprendeva che il desiderio inconscio, sottostante a tutti quegli strati di convenzioni, era quello di essere se stessa. Essere la Vera Evey.
(Con te.)
Cosa aveva appena visto? Cosa stava vedendo ora?
Si è mostrata. Vorrebbe non averlo fatto.
(Ti ha fornito un appiglio. Si è offerta a te e a quello che vuoi farne di lei. Il Piano.)
Si è mostrata. Avrebbe fatto meglio a non farlo.
Lei avrebbe dovuto riconquistare quei centimetri, nel suo diniego. Avrebbe dovuto, perché era così che doveva essere. Era così che si faceva. Ma Jelonek avvertiva il suo oscuro bisogno, avvertiva il suo desiderio distruttivo divorarla da dentro. Sapeva che ormai era troppo tardi, sapeva che comunque andasse, lei gli aveva mostrato la verità - non più un canto sommesso da avvertire in maniera segreta ed esclusiva, ma uno spettacolo privato allestito per lui. Per il suo Piano.
Forse era un errore; sicuramente lo era. Ma Jelonek poteva vedere attraverso la sua mente, e non c'era davvero nulla che lei potesse tenergli nascosto.
Contravvenne alle sue stesse, vaghe disposizioni. Abbandonando la sua postura, le sue braccia abbandonarono le ginocchia e scivolarono verso il basso mentre Jelonek si sporgeva verso di lei. Si spostò, strisciando a sedere di fianco a lei, nella zona che lei aveva preteso come area neutrale in cui riprendersi, in cui riassestare la sua maschera, il suo costume. La invase, senza chiedere alcun permesso. Era l'unico, nei paraggi, a rassomigliare vagamente un essere umano. Per completare la sua perdizione, il suo annullamento, Evey aveva bisogno di lui.
Postosi di fianco a lei, Jelonek le circondò le spalle con un braccio, con un movimento ricolmo di esitazione. Lei avrebbe avuto tutto il tempo di scostarsi, di respingerlo, se lo avesse voluto. Sarebbe stata la stessa cosa che aspettare che fosse lei a compiere quel movimento, sapendo quali intenzioni si combattevano nella sua mente.
Jelonek attese qualche secondo. Quello era un tipo nuovo di vicinanza, qualcos'altro a cui non era abituato. Non riguardava la distanza tra i loro respiri o quello che lui le scorgeva tra i pensieri; era un modo per avvicinarla a sé su un piano completamente diverso. Evey Atkinson aveva toccato il fuoco, ci aveva persino giocato. Non c'era motivo per cui ora dovesse rifiutarsi di bruciare, sempre più vicina alla fonte del calore, sempre più disposta a sopportare il dolore dell'ustione.

-Perché?- le chiese, quando la mano libera le ebbe sollevato appena il mento, nella sua direzione -Perché dovrebbe dispiacerti?-

"Non volevo", aveva detto. Ancora mentiva a lui, ancora mentiva a se stessa... ma a quale scopo?

-Non hai fatto niente di male. Va tutto bene. Va tutto bene, adesso-

Va tutto bene per quella parte di te che vuole disintegrare le ultime tracce della Falsa Evey. Va tutto bene per quella parte di te che ti vuole maledetta. Va tutto bene per me.

We press for the water, press for the river, press for the rain
We press for the water, press for the river, press for the pain.



J. F.
 
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Jelonek non fuggiva, Jelonek non correva.
Jelonek rimaneva lì, accanto a lei, si avvicinava ancora di più. Lo sguardo ancora fisso al pavimento, gli occhi chiusi nel tentativo di estraniarsi da ciò che aveva appena fatto, Evey percepì le proprie spalle che venivano avvolte dal suo braccio. Udì la sua voce, calda e confortevole, percepì il calore del suo corpo, di nuovo così vicino, di nuovo così necessario...
Avvertì il profumo del suo sangue, il pulsare delle sue vene, l'ardire della sua vita così a pochi centimetri distante da lei...
Scosse di nuovo il capo, le unghie piantate nella propria gola. L'impulso di staccarle dalla pelle e cercare le sue era forte, si, ma non abbastanza. Evey doveva punirsi per ciò che aveva fatto, doveva sentire la consistenza tagliente delle sue unghie penetrarle nella carne nel tentativo di strappare via il sangue di Jelonek e purificarsi da quell'onta di cui si era appena, vergognosamente macchiata.
Jelonek non fuggiva. Non scappava, Evey non capiva. Perchè si ostinava a vederla in quel modo? Come una cosa da nulla? Eppure era un Legilimens, doveva sapere che quello che era appena successo fosse uno dei suoi incubi più ricorrenti. E ora era realtà.
E ti è piaciuto. Ti è piaciuto terribilmente da volerlo ripetere, ti è piaciuto perchè non è dipeso dalla malattia. Puoi ancora sentirlo, annusa l'anice su di lui, ne è ricoperto. Lo vuoi.
No, Evey... Evey era malata. Gli aveva fatto del male, lo aveva ferito. Lo aveva trascinato nella stanza, e questa volta non soltanto con la mente, gli aveva dato un vero e proprio assaggio di quello che era successo. Anzi, lei aveva preso l'assaggio da lui. E lui... lui non ne sembrava sconvolto.
Perchè?
- Non volevo... -
Si, lo volevi. Lo vuoi ancora, senti questo profumo? Senti il sapore? E' denso, è caldo... E' tuo. Prendilo.
Lo aveva ferito. Aveva affondato le zanne in lui come una bestia, gli aveva succhiato via la vita. E questa volta lo aveva fatto senza alcuna Follia Verde a dominarla.
No, era malata. Non poteva averlo fatto senza essere malata, non aveva senso.
Non sei malata. Non sei mai stata più viva di così. E lui vuole che tu lo faccia ancora, fallo! Prendilo!
Serrò gli occhi, sentendo che la gola le ardeva, le bruciava, le corde vocali andavano a fuoco sotto quel meraviglioso disgustoso sapore di ferro e ruggine. Respirò, tentò di trarre più a fondo l'aria che le risultava tanto difficile trovare; rilassò le palpebre, concentrandosi su quel braccio intorno a lei. Era al sicuro, non doveva temere. Lui non era scappato, lui era ancora lì, l'avrebbe aiutata, l'aveva promesso. Non doveva temere, lui l'avrebbe aiutata...
- Non volevo ferirti... - mormorò terrorizzata da se stessa, osando solo allora aprire gli occhi e guardarlo. Lui le aveva sollevato il volto, ma Evey non era riuscita a ricambiare il suo sguardo, troppo impegnata a vergognarsi, troppo impegnata a terrorizzarsi da sola. Lo aveva ferito, l'unica persona che le era stata vicina, l'unica che riusciva a farla sentire come se non fosse mai entrata in quella stanza, l'unica che...
E ora lo aveva trascinato dentro. Gli aveva mostrato il fuoco, il sangue, gli aveva mostrato il verde smeraldo e il ruggito del drago, aveva scoperto le zanne già sporche di sangue, lo aveva sfidato a fuggire ma lui...
A lui sembrava essere piaciuto.
Non aveva paura. Rimaneva davanti a lei, fronteggiava la bestia e non aveva alcuna intenzione di rimanerne sconfitto. Non si rendeva conto? Non ne era disgustato? Chiunque ne era rimasto disgustato. Evey sentiva addirittura il disgusto delle pareti, delle statue, degli arazzi. Sentiva le urla delle targhette, lo sguardo giudizioso di chiunque incontrasse per strada. E lui..?
- Perchè non hai paura? - sussurrò, desiderando solo nascondersi, nascondersi nell'incavo del suo collo e chiudere gli occhi.
Nascondersi, chiudere gli occhi, lacerargli anche il lato della gola ancora intatto, succhiargli via anche la vita che ancora non si era presa. Lo sentiva pulsare, lo sentiva respirare e profumare. Lo voleva.
- Perchè non scappi? - mormorò, le dita ancora arpionate alla propria gola in un dolore che non sentiva nemmeno più, perchè era quella l'unica via che aveva per punirsi: ferire se stessa, ferire lei al posto suo. Espiare per via del dolore.
Un anno. Un anno e lei aveva ancora bevuto sangue umano.
- Non va bene! - Evey scosse il capo e lo fissò - Ti ho fatto... Ti ho fatto del male! -
Parlare le faceva bruciare ancora di più la gola. La voce le usciva a fatica; gli occhi cercavano da soli, senza controllo la ferita che lei stessa gli aveva causato. Per non guardare, per cercare di dimenticare, per allontanarsi da tutto quello, Evey poggiò la fronte contro la sua spalla sinistra e chiuse gli occhi, chiedendogli perdono anche se lui non poteva vederla. Non avrebbe mai smesso di chiederglielo. Tra le urla che erano risorte, tra l'inferno che si era scatenato di nuovo, non appena i suoi denti avevano saggiato la calda consistenza del suo sangue, tra le fiamme verdi che avevano lambito entrambi, nella Stanza che, di nuovo, cercava di risucchiarla come l'inferno più profondo, Evey gli chiese silenziosamente perdono.

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Evey non correva. Evey non fuggiva.
La Vera Evey aveva parlato con Lui, gli aveva guardato dentro - anche se aveva visto, in un certo senso, quello che Lui aveva voluto che vedesse, il che era comunque troppo. Non c'era nulla che nessuno avrebbe potuto celare all'indagine pigra e tagliente, involontaria e oscena, compiuta da J. F., il quale aveva del resto appreso (con quell'immediatezza sproporzionata e disumana da Dopo) che per quanto lo riguardava, il modo migliore per nascondere qualcosa era esporlo in bella vista. Jelonek era ciò che J. F. metteva in mostra, e dietro quegli strati di goffaggine, impacci e inadeguatezza, J. F. ghignava.
Evey Atkinson aveva fatto qualcosa di spaventoso, sì. Gli aveva offerto le sue cicatrici, si era esibita per lui; gli aveva mostrato i fili che la muovevano, ciò che la teneva sveglia la notte, a fissare il baldacchino di seta verde con un groppo alla gola e le lacrime cristallizzate sulle guance pallide - la consapevolezza che le sue compagne di stanza si trovavano molto lontano, a diversi Inferni di distanza.
Ma Jelonek si era denudato molto prima, così come qualsiasi gentiluomo avrebbe dovuto fare. Aveva sfoggiato uno a uno gli orrori creativi impressi nelle sue carni, le aveva parlato di muto terrore e di graffi che gli avevano inciso le ossa, del modo in cui il suo passato avesse indossato dei canini appuntiti e lo avesse continuato a inseguire per anni... le aveva detto quelle cose come se si trattasse di una barzelletta, un racconto da pub, e il Diavolo, o chi diamine c'era al suo posto, sapeva se non fossero davvero questo, per lui. Le aveva detto la verità assicurandole che le avrebbe mentito, e questo entrambe le Evey lo sapevano.
Lei si era afferrata il collo, mormorando frasi che qualcuno le aveva detto prima, qualche persona o qualche libro. Pensava che la cosa giusta da fare fosse negare. Chi poteva biasimarla, vedendo come chiunque le aveva voltato le spalle?
Qualcuno le avrebbe detto, per consolarla, che non era ancora una reietta, che la caduta era molto profonda e le sue unghie a forma di mandorla avrebbero potuto trovare una sporgenza a cui attaccarsi e risalire, se avesse continuato ad agitare le mani. Nel sentirla affondare la testa nella sua spalla sinistra (non come chi cerca conforto, ma chi implora nuovo tormento, quello definitivo: in una parola, assenzio), Jelonek poteva quasi scorgere il sangue delle sue unghie spezzate imbrattargli la camicia, e vedere il fondo del baratro avvicinarsi sempre di più, in un vortice nero che le spegneva accendeva gli occhi.
Sei quasi arrivata, Evey.
Assecondò il suo movimento, senza sporgersi troppo, senza stringerla o invadere i suoi spazi. La mano rimaneva appoggiata alla sua spalla in un gesto saldo, ma reversibile. Sembrava passato molto tempo da quando quel contatto lo aveva lasciato spiazzato, nella Foresta Proibita.
(Ma è soltanto un'illusione. Il tempo non passa mai, e tu sei ancora lì dentro.)
(A un qualche livello, J. F. sapeva che l'odore che gli imbrattava i vestiti, e la pelle, e i capelli, e l'incavo del collo, non era altro che l'effluvio che l'aveva stregata nella Stanza delle Catene. A un qualche livello, J. F. sapeva che un giorno quella piccola spinta sarebbe bastata a farle spezzare di nuovo le catene, a farla desiderare di...)

Crossing the water
Lead them to die



-Mi sono fatto più male scivolando nella doccia. E capita più spesso di quanto immagini. Non che qualcuno mi immagini mentre faccio la doccia. Almeno, credo-

Si grattò dietro la testa con la mano libera, mentre un sorrisetto gli solleticava gli angoli pungenti della bocca e il suo sguardo vagava tra i residui di tè freddo nelle coppe. Mai interruzione fu più provvidenziale del gufo che si annunciò con un battito d'ali entrando prepotentemente in Sala Trofei. Gli lasciò cadere in grembo una rivista arrotolata, dalla copertina lucida e vistosa.

-Oh, grazie... Valyrio-

Annuì Jelonek convinto. Il modo migliore per dare un'impressione di convincente disinvoltura, aveva imparato, era fingere di conoscere i nomi di tutti. Il gufo aveva un piumaggio color tempesta e occhi famelici. Il borsello legato alla sua zampa rapace tintinnava rumorosamente. Il volatile gli si avvicinò, prendendo a distribuirgli beccate tra le orecchie e spalle.

-Oh, Valyrio... Eheh-

Il dover contare il denaro davanti ai commessi lo aveva sempre messo in una situazione di enorme panico; era solito estrarre dal cilindro uno dei suoi celebri pettegolezzi interessanti per distrarre lo sguardo inquisitorio del negoziante, solitamente intento a sospettare - in maniera fondata - che non sapesse contare. Ma non c'era pettegolezzo che potesse interessare Valyrio; così, Jelonek finì per arraffare tre pesanti galeoni dalla tasca e infilarli frettolosamente nella borsetta dell'esigente gufo postino. Qualcosa come il prezzo di un abbonamento biennale al Settimanale delle Streghe; quello che tra l'altro aveva già pagato.

-Ehi- esclamò, ricordandosi precipitosamente del momento in cui aveva inviato il denaro agli editori del Settimanale dopo la loro convincente campagna pubblicitaria "Carissima abbonata..." -Ho un abbon...-

Ma Valyrio aveva già spiccato il volo, attraversando la Sala Trofei e scomparendo tra i labirintici corridoi, diretto senza ombra di dubbio verso una notte di follie in Gufaia. La colossale truffa del gufo, tuttavia, scomparve rapidamente dai pensieri di Jelonek quando i suoi occhi incontrarono la gloriosa copertina. Odorava di... di edicola. E scandali. Le due cose che preferiva (?).
Cosa poteva esserci di meglio, per risollevare l'umore a Evey?

-Il nuovo numero del Settimanale delle Streghe- spiegò in maniera del tutto superflua, con manifesta soddisfazione.

Non solo conosceva un gufo per nome, ma il suo Abbonamento PinkPremium gli dava il diritto a un recapito personalizzato e gratuito. Erano passati tanti anni, ma finalmente si poteva dire che fosse diventato il reginetto della scuola - qualcuno con cui era assolutamente cool passare del tempo.
Tutto questo, prima che il suo sguardo incontrasse l'espressione BOMBA FEDORYEN stampata in un font decisamente all'ultimo grido tra le prime pagine della preziosa e autorevole rivista.
Sarebbe stato elegante precipitarsi a leggere la sua stessa intervista?
Quale che fosse la risposta, era troppo tardi. Mantenendo la mano sulla spalla di Evey, Jelonek aprì con assoluta eccitazione e naturalezza l'articolo redatto da Daisy Hall - quello in cui le sue dichiarazioni sulla fallimentare carriera scolastica della studentessa e le insinuazioni tra le righe della sua presunta paternità dei figli di Kedavra "Mandy" Mandylion non aspettavano altro che di essere lette.


J. F.
 
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Mi sono fatto più male scivolando nella doccia. E capita più spesso di quanto immagini.
Evey sollevò lentamente lo sguardo e lo fissò. Le dita smisero di affondare le unghie nella propria gola e, finalmente, riuscì a deglutire. Sentiva ancora quel sapore ferroso, quell'odore di ruggine così vicino alle sue labbra, ma, ora, il tremore alle mani era cessato. Il pavimento non ondeggiava più così paurosamente sotto di lei, la voglia di scappare si affievoliva ogni istante trascorso.
Provò a respirare di nuovo più profondamente; guardò di nuovo Jelonek, cercando di cancellare quell'odiosa sensazione che le faceva pungere gli occhi dall'interno. La paura le attanagliava lo stomaco, ma lui era ancora lì. Lui non la lasciava sola.
Lui le diceva che andava tutto bene.
E quando Lui si era sbagliato? Mai. Non ancora, Jelonek aveva sempre avuto ragione su di lei, era sempre riuscito a farla stare bene. Evey doveva fidarsi.
Era stato naturale. Era stato giusto. L'idea, di per sé, le suonava orribile e oscena, ma non così lontana da una realtà che doveva ancora contemplare ma che, tuttavia, esisteva. Ne aveva accettato l'esistenza. Il resto, come Lui diceva, sarebbe venuto da sé.
Non era stato sbagliato.
Evey respirò ancora più profondamente, sentendo il braccio di Jelonek che l'avvolgeva più stretta; quella era un'idea da cui partire che non la disgustava del tutto, nonostante ne fosse ancora terrorizzata, il suo cuore pompava ancora a mille, come se stesse continuando a ricevere l'energia di quel sangue che continuava a colarle dentro.
Non era stato sbagliato.
- Non voglio essere come loro. - mormorò quindi, dopo aver abbassato lo sguardo e indurito il tono. Non voleva più tremare.
Non voleva essere come i suoi carcerieri. Non voleva essere come i suoi torturatori. Non voleva essere come Kedavra, non voleva essere come Shaverne. Non voleva essere come gli Auror. Non voleva essere come i Mangiamorte. Non voleva fargli del male.
Voleva essere come lui.
E com'è lui?

Libero.
- Valyrio? -
Evey esitò sul nome del gufo, che becchettò Jelonek alla ricerca di... spiccioli? Vide che il Legilimens spendeva ben tre galeoni di mancia per quella consegna e lasciava volare via Valyrio (nome indegno per un gufo, lei lo sapeva, aveva letto quei libri. C'erano i draghi.) con un bottino pressoché gratuito e ghiotto.
Un po' riscossa dalla scenetta, decisa a non voler apparire, per l'ennesima volta, come una ragazzina sconvolta e spaurita che attende la morte nell'angolo più remoto della stanza (Mettere fine a tutto questo), Evey si sporse sul Settimanale delle Streghe che il professore aveva appena ricevuto.

- Nonno ho, deciso! -
Evey sorrideva, raggiante e sicura. Aveva trovato la sua strada e avrebbe, finalmente, reso orgoglioso suo nonno. Niente più occhiate di sufficienza, niente più trattamenti di silenzio. Evey si era presentata, al fianco della nonna, sulla soglia di Aidan Rosier, impeccabile per il pranzo di Natale, fulgida nella sua nuova sicurezza. Si era alzata dalla propria sedia di mogano, tirata a lucido come tutte le altre preziose sedie di mogano, e si era preparata a riferire al nonno ciò che, finalmente, lo avrebbe reso orgoglioso di lei.
Le sopracciglia di Aidan Rosier erano salite in alto, dipingendo un'espressione di fredda perplessità davanti a quel gesto teatrale, ma Evey non si era fatta scoraggiare e aveva continuato a sorridere.
- Diventerò una giornalista come te! Mi proporrò al Settimanale delle Streghe! -
Aidan Rosier aveva continuato a mangiare la sua zuppa di cipolle, come se Evey non avesse parlato. La nonna aveva inarcato le sopracciglia e spedito ad Evey uno sguardo d'incitamento.
- Quando apriranno le iscrizioni... -
- ... tu non ti proporrai. - la interruppe il nonno, tranquillamente, prendendo un'altra cucchiaiata di zuppa. Evey rimase spiazzata; cercò lo sguardo della nonna, che appariva sorpresa quanto lei.
- Perchè no? - domandò la nonna, venendole in soccorso - Potrebbe essere una buona opportunità! Evey pensava che ne saresti stato entusiasta.. -
- Se ha bisogno che sua nonna esponga i fatti per lei, allora è meglio che se ne stia ben lontana da qualsiasi piuma. A meno che non si tratti di una Penna Prendiappunti. - replicò il nonno, pacatamente.
Evey rimase in silenzio per quasi un minuto, mortificata, ancora in piedi in quella posizione che, si era illusa, le avrebbe dato forza e qualche speranza di impressionare il nonno.
- Non ho bisogno che la nonna esponga i fatti per me. - disse dunque, ingoiando amaro. La nonna spostava lo sguardo da lei ad Aidan Rosier, con l'aria di chi vorrebbe lanciare altrove la stupida zuppa che il nonno continuava a mangiare come se stessero parlando della potatura nel giardino.
- Quel giornale è spazzatura, Evey - il nonno depositò il cucchiaio e si asciugò le labbra con il tovagliolo di cotone color smeraldo - non ho intenzione di permettere che mia nipote vi si avvicini. -
Questo parve sollevare sia Evey che la nonna; non si trattava, in fondo, di sfiducia nei suoi confronti, ma di pregiudizi per un giornale scandalistico, era qualcosa che si poteva affrontare.
- D'accordo, ma da qualche parte dovrò pure cominciare. - disse Evey, confusa. L'elfo domestico portò via la ciotola della zuppa mentre Aidan Rosier impugnava il coltello per tagliare e spezzare l'arrosto di cigno nero.
- Non farai la giornalista. Non ne hai le capacità. - rispose il nonno, affondando la lama nella carne per staccare l'ala sinistra - Ora siediti, non hai motivo di stare in piedi. -
Evey si sedette, lentamente, cercando lo sguardo della nonna. Per qualche motivo, non osava guardare il nonno, che stava depositando l'ala sinistra nel proprio piatto ed ora si occupava della coscia. Per tutto il tempo, i suoi occhi neri erano stati impegnati dal cibo, ma Evey si sentiva ugualmente trafitta come se il nonno la stesse guardando senza battere ciglio.
- Come fai a dirlo? Non l'hai mai vista scrivere. - ribattè la nonna, accigliata.
- Appunto. - disse Aidan Rosier, deponendo la coscia del cigno sul piatto di Evey e indicandole, con la punta della lama, le verdure di contorno di cui avrebbe dovuto servirsi - Si tratta solamente di un altro capriccio, come quella volpe. Non incoraggerò nulla di simile, lei non potrebbe farcela in quegli ambienti. -
Affondò la forchetta d'argento nella tenera carne, da cui strappò un succulento pezzo che portò alla bocca e masticò con lentezza. Evey non riuscì a fare lo stesso con la coscia, sentiva lo stomaco chiuso e gli occhi brucianti per l'umiliazione. Non osava alzarli nemmeno per guardare la nonna, che non replicava a quelle considerazioni perchè, Evey lo sapeva, dava ragione al nonno.
- Zeboim non è stata un capriccio! - fu l'unica cosa che riuscì a dire, odiando il fatto che la sua voce risuonasse tanto bassa.
Aidan Rosier staccò un secondo pezzo di cigno e lo accompagnò con una punta di cren.
- Quaranta galeoni per una bestia - le ricordò, agitando appena la forchetta - io lo definisco "capriccio". -
Evey abbassò lo sguardo sul tovagliolo alla sua destra. Si costrinse a riporlo sulle proprie gambe, come la nonna avrebbe voluto; non aveva raccontato a nessuno dei due della Follia Verde, di ciò che era successo. Non aveva mai raccontato che Zeboim era stata qualcosa di cui aveva avuto bisogno, un'amica.
- Avevo... necessità. Mi serviva compagnia... - disse debolmente, sapendo che, secondo il nonno, si trattava di "cose psicologiche di scarso valore".
- Mi chiedo come sia possibile che tu abbia potuto credere di diventare giornalista, se l'unica compagnia che puoi avere te la devi comprare - replicò il nonno, perplesso - un giornalista sarà sempre circondato da persone, dovrà ricercare persone, dovrà essere ricercato da persone. Non potrai pagarle quaranta galeoni per stare con te. -


- Il Settimanale delle Streghe? Sul serio? - domandò, perplessa, guardando la copertina. Sfogliò le pagine distrattamente prima che Jelonek si concentrasse su un articolo particolare. Sembrava lo avessero citato in ogni singolo pezzo.
- Diamine, come hai fatto? E' un numero praticamente dedicato a te! - disse stupita. Non sapeva che Jelonek avesse riscosso così tanto successo in così poco tempo.
Lesse rapidamente l'articolo in cui appariva anche lei, di sfuggita e con il cognome sbagliato (sorrise). Alzò lo sguardo su di lui, cercando di nascondere l'ombra divertita che le aveva attraversato il volto.
- Sembra ti sia lasciato dietro una cucciolata abbondante, complimenti. - dovette cedere, infine, ad un leggero ghigno mentre la morsa allo stomaco si alleviava pian piano. Non avrebbe mai potuto credere ad una storia del genere, non se proveniva dal Settimanale e non se riguardava una cucciolata di Kedavra. Stranamente, Jelonek aveva dato una risposta sensata, come diavolo avrebbe fatto Kedavra a diventare Auror e Preside con il forno pieno? Questo però non aveva fermato Daisy Hall.
- Congratulazioni anche per la recita, hai messo la Hall nel sacco. - aggiunse annendo, rivolgendogli però un'occhiata quasi titubante, come se non fosse sicura di poter parlare in modo così leggero dopo ciò che era appena successo.
I nonni non lo avrebbero approvato. Ma Lui si.
Inoltre, non riuscì a nascondere che, quelle poche righe che la citavano, le suscitavano uno strano senso di... orgoglio e lusinga al contempo, qualcosa che, per qualche secondo, tramutarono il ghigno in un sorriso, lo stesso sorriso che l'aveva illuminata quando aveva aperto l'Amantello. Fissò, di nuovo, i dettagli del viso di lui, chiedendosi se quel che era successo l'avesse portata ad allontanarsi o ad avvicinarsi a quegli stessi particolari, se fosse stata di nuovo libera di sfiorarli e toccarli senza sentirsi in colpa.
Lui le avrebbe detto di si.
Distolse lo sguardo e lo posò di nuovo sulle pagine sotto di loro. Timidamente, le dita di Evey sfiorarono le sue.
 
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