Hogwarts: Harry Potter Gioco di Ruolo

Smells like teen spirit, Privata

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view post Posted on 17/11/2013, 06:14
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Continuò ad osservarlo, senza battere ciglio. Inclinò appena la testa, senza discostarsi dalle sue dita. Si chiese come fosse davvero Jelonek, quello senza i falsi ricordi, quello che non doveva riscoprirsi di nuovo ogni giorno. Anche a lui piaceva andarsene in giro vestito come un clown? Anche lui le avrebbe spiaccicato la torta in testa, così, senza motivo? Anche lui avrebbe cercato di avvicinarla? Oppure era solamente una persona diversa che non avrebbe notato e non l'avrebbe notata?
Non riusciva ad immaginarlo diverso da come lei l'aveva conosciuto, con la sua stupidità, la sua follia e la sua immaturità. Non sarebbe stato Jelonek.
(E chi ti dice che quello che hai davanti lo sia?)

Sarei la persona più bugiarda del mondo a promettere una cosa simile
E tu quella più stupida a crederci.



Corrugò le sopracciglia, stringendo appena gli occhi. Era una cosa davvero stupida da dire se davvero Evey avrebbe dovuto fidarsi di lui. Non si lasciò distrarre da quelle dita tra i suoi capelli, né dalla mano sulle sue labbra. Tenendo lo sguardo fisso su di lui, gli occhi negli occhi, avanzò di un passo, il braccio che passava sotto al suo e gli si appoggiava alla scapola, capendo che il gioco che lei aveva fatto sulla barca, quello del nonfaccionientefinchétunonfainiente ora lo aveva ingaggiato lui.
- Perchè dovresti mentirmi? - domandò a bassa voce. Evey non trovava altri motivi per cui Jelonek dovesse ricorrere alle bugie. Non era scappata nel conoscere la verità, non era fuggita quando aveva saputo della sua mente, manipolata e ricostruita. Cos'altro di lei avrebbe potuto spingerlo a mentire? Poteva quasi risultare incredibilmente sospetto il fatto che lui si aspettasse di raccontarle altre menzogne, quando si trovavano entrambi sulla stessa barca, e questa volta non in una tranquilla notte qualsiasi; una barca fatta di maschere d'argento e mantelli neri, di tombe e lapidi.
Ed Evey era già stupida. Si sentiva incredibilmente stupida, come se ogni cosa che facesse, ogni gesto che compisse, ogni parola che pronunciasse fosse un errore. Specialmente quando si trovava con Jelonek, ma non poteva farne a meno, in particolare nei momenti come quello, in cui l'una scavava nell'altro, alla ricerca di risposte, di dubbi, di domande, di conferme, di somiglianze...
I suoi occhi vagarono lungo i dettagli del viso di Jelonek; ne osservarono, per l'ennesima volta, la pelle, che recava i segni del suo tempo, gli occhi infossati, che a tratti le sembravano stanchi e a tratti pieni di vita, le labbra il cui sorriso spesso non riusciva a decifrare, il suo respiro, che avvertiva sul proprio viso, freddo e caldo al contempo. Era quello che più lo rappresentava, più di tutte le caratteristiche che si potevano guardare. Una persona che era due opposti al contempo, senza riuscire mai a capire quale ci si trovasse davanti.
- A meno che tu non lo voglia. - disse dunque, inclinando di nuovo la testa ed analizzando le sue espressioni, che non era per nulla facile cogliere dal suo volto.
(E per quale motivo qualcuno dovrebbe voler mentire quando non sia necessario?)
- E non so proprio perchè dovresti volerlo. - aggiunse, continuando a scrutarlo in volto.

Sparkling angel,
I couldn't see
Your dark intentions
Your feelings for me.



- Hai davvero una scarsa considerazione di te stesso. -
Non potè evitare di risultare lievemente sprezzante pronunciando quelle parole. Non aveva nulla contro i problemi di autostima, lei doveva farci i conti continuamente. Quello che non capiva e che non le piaceva era l'ostinazione di lui a volerci sguazzare, a farne addirittura la propria lancia di guerra. Era vero, lei non affrontava i problemi, li rifuggiva, vigliaccamente, ma ne era consapevole e non voleva che fossero questi a dominare lei. Non lasciava che fossero questi ad allontanarla dalle persone.
(Ah, davvero?)
No, per niente. Lei e Jelonek erano uguali in questo, e ad Evey dava fastidio. Non sapeva cosa fosse, ma qualcosa la irritava al riguardo.
No, lei non era affatto come lui. Lui l'aveva accettato, lei invece... lei non riusciva a fare a meno di desiderare che così non fosse, desiderare la normalità.
(Desideri troppe cose che ti sono negate.)
 
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view post Posted on 20/11/2013, 03:02
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Evey continuava a oscillare tra esplosioni di esitante fiducia a sussulti di accomodante diffidenza. Se Jelonek avesse potuto esprimere un'opinione di gradimento su un qualche sentimento, senza dubbio gli sarebbero piaciuti entrambi. Aveva bisogno che la studentessa credesse in lui, o il Piano sarebbe andato a monte - o meglio, avrebbe subito grandi rallentamenti; allo stesso tempo, rapportarsi con riserva e distacco era davvero il solo modo in cui ormai riteneva che si potesse affrontare il mondo.
Certo, per la Serpeverde sarebbe stato mille volte meglio lasciarlo, interrompere il contatto fisico con la sua pelle (che infine era un'esplorazione e non solo da parte di lei) e ancor più quello visivo (che infine era un'esplorazione e non solo da parte di lui), ma non era il suo benessere lo scopo ultimo del Piano. Se mai, si trattava di un sacrificio.

-Non ho alcun problema con la verità- mentì apertamente, trovando una ciocca di capelli corvini e attorcigliandosela pigramente sul dito -Ne ho con le promesse-

Si strinse appena nelle spalle.

-Non posso prometterti niente. Né a te, né a nessun altro. Né su questo, né su niente altro-

Non aveva fatto granché nella sua vita, a parte deludere chiunque contasse su di lui per qualcosa, o avesse aspettative sul suo futuro. Il suo "Dono" ("Non capisci cosa potresti diventare?" era la frase ricorrente di Mandy, che serbava in lui più speranze di quante ne avessero mai riversate i suoi stessi genitori). La sola volta in cui lui era rimasto a piedi, a bocca asciutta, deluso e amareggiato da qualcuno, era stato proprio a causa di una promessa o, per meglio dire, di ciò che qualsiasi promessa recava con sé. Quel seguito di speranze e traballanti sicurezze che puzzavano troppo di fede nel prossimo, nonché della credenza superstiziosa in una qualche giustizia cosmica - che non esisteva, come tutte le summenzionate utopie.
Inclinò la testa da un lato, come chi è intento a studiare un fenomeno in parte interessante, in parte divertente.

-Potresti promettere di non mettere mai piede sulla luna, forse. Ma... di non dire bugie?-

("Non so perché sono qui... non lo so.")

-Di non toglierti la vita?-

|| Ha tentato di strapparsi la lingua. Riesci a crederci? Fortuna che basta un colpo di bacchetta. Tu sei proprio un bastardo fortunato. ||



-Di non uccidere?-

("Vieni qui. Non farà male.")
[Ma non è successo, vero?]

-Qualsiasi promessa può essere infranta. A quel punto staresti molto peggio. Soprattutto se credi a queste cose- le lasciò andare il ciuffo di capelli, sfiorandole la guancia con l'indice.
Emise un mezzo sospiro; nemmeno quello fu del tutto sincero. Non c'era niente da fare. Le menzogne erano le fila di lana con cui era intrecciata la trama della loro vita. Lui era solo all'inizio del suo gomitolo. Evey professava di non volerne, ma la sua esistenza ne traboccava. Non poteva farne a meno. Nessuno poteva, ma loro ancora meno degli altri.
E siamo simili, Evey. Ci troviamo sulla stessa scacchiera.
Stavano giocando con il fuoco. Ma per farlo, si doveva essere in due.

-Che considerazione mi merito, quindi?- le chiese, lo sguardo che si tingeva di una luce intrigata -Senza promesse?-

Ma era la mano a giocare con il fuoco? O il fuoco a giocare con la mano?
Se J. F. avesse dovuto giudicare dal suo essere impercettibilmente sospinto contro la parete alle sue spalle dal movimento di lei e dalle sue domande inquisitorie, avrebbe detto che il fuoco, quel pomeriggio, appariva straordinariamente intimidito.

J. F.
 
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view post Posted on 20/11/2013, 04:23
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Non le piaceva. Non gradiva una singola sillaba di ciò che lui le stava dicendo, senza alcun pudore e vergogna. Jelonek era la persona più contorta che avesse mai conosciuto; si avvicinava, le parlava di grandi cose, le confidava grandi cose, grandi intenzioni. E poi le diceva apertamente di non fidarsi, di non legarsi credergli, che non era capace di mantenere promesse. ma Evey non gli aveva mai chiesto nulla del genere; c'era un abisso tra promesse e verità, e lei non era del tutto sicura che lui non avesse problemi con quest'ultima. L'abisso aveva pur sempre un fondo che univa le due pareti di roccia scura; le promesse potevano essere false così come la verità poteva essere manipolata. Era forse il caso di porre un filo sottile tra quelle due estremità? Una corda tessuta con il dubbio, un ponte sottile da percorrere per attraversare l'abisso?
- Sei un opportunista. -
Osservò con un bisbiglio, senza distogliersi da lui, senza cedere al tocco leggero del suo dito che s'intrecciava ai propri capelli. Rimase con lo sguardo piantato al suo, nonostante il suo corpo si fosse avvicinato ancora di più e la mano sulla sua scapola premeva con più forza.
Jelonek Fedoryen era un manipolatore. Fin qui nessun dubbio. Eppure non le sembrava lontanamente simile a tutti i manipolatori di quella scuola, di quel Ministero. Era molto peggio e al contempo mille volte meglio.
Ma se davvero non aveva bisogno di lei per andare dove avrebbe dovuto... era possibile che su una cosa non stesse mentendo?
Ricambiò lo sguardo indagatore, i loro volti distanziati da pochi centimetri l'uno dall'altro.
Era in momenti come quelli che Evey avrebbe voluto accettare il suo suggerimento di diventare una Legilimens; tuttavia, non era certa di compiacersi di ciò che avrebbe trovato nella sua mente, anzi. Era piuttosto sicura del contrario, tuttavia...
Tuttavia era ancora lì. Con le sue dita tra i capelli e il suo braccio a cingerlo.
- Nessuna. -
Replicò senza alcun dubbio, un sibilo ostile e caldo al contempo.
(Non ne meriteresti nessuna.)
L'altra mano di Evey, quella ancora intrecciata alla sua, salì ad avvolgergli l'altra spalla. Non badava nemmeno più al linguaggio del proprio corpo, in perfetta contrapposizione rispetto a quello vocale. Jelonek non meritava nulla, non se non riusciva a dirle la verità.
(Non se non riesce a mantenere le sue promesse.)
Ma poi... di quali promesse stavano parlando, in realtà?
Era la prima volta che quell'argomento veniva a galla, qualsiasi cosa riguardasse. Evey non l'aveva mai tirato in ballo, Jelonek nemmeno, come se avessero stretto una sorta di tacito accordo, come se fosse un argomento scomodo che entrambi non avevano voglia di affrontare.
(Che tu hai paura di affrontare. Per questo non ne hai mai parlato.)
Perchè già sapeva la risposta. Di qualsiasi promessa si trattasse, qualcosa, dentro di lei, quella parte più scettica e che ancora non si arrendeva a quelle dita tra i capelli, l'aveva preparata.
- Devi sentirti molto solo... -
Mormorò. Una semplice osservazione, esattamente come quelle che lui le faceva sul fatto di non pettinarsi e di non avere amici. La sua voce era bassa, velata di impercettibile malinconia, familiare amarezza. Forse era proprio per quello che le si era avvicinato; lei era sola, al suo stesso modo, niente di più, niente di meno. Ma lei non mentiva. Lei non partiva dal presupposto di infrangere promesse. Non ne sentiva il bisogno, non solo perchè non aveva promesse da infrangere.
Lei non aveva paura. Lui si.
Fastidio, si, questo aveva provato nel sentirlo parlare in quel modo. Fastidio nel sapere quanto fosse a fin troppo bendisposto nei confronti del falso, quando lui era stato in grado di farle provare qualcosa di vero in mezzo ad un vortice di menzogne e bugie. Qualcosa di vero ed incredibilmente bello.
(Una risata. Il placido ondeggiare del legno sull'acqua. Quello era vero, quello era reale, ed era stato lui a crearlo.)
Ma poi... di quali promesse stavano parlando, in realtà?

Di non toglierti la vita?



Lo guardò fisso, l'espressione che diventava una maschera senza alcuna sfaccettatura. Era un semplice esempio, come quello di andare sulla luna, o qualcosa da cogliere tra le righe?
Ma lei sapeva che lui l'aveva intravisto. Sotto la fredda superficie del Lago Nero, quando ormai aveva cessato di lottare, una parte di Evey aveva gioito. Quella parte che si era sentita, finalmente, fuori da lì, quella parte che...

Mettere fine a tutto questo.


E Jelonek l'aveva visto. Come vedeva sempre tutto, senza che Evey potesse impedirlo. Forse era per questo che stavano parlando di promesse, infine? Perchè lui aveva visto qualcosa che lei aveva subito seppellito?
(E' solo un stupido esempio.)

Di non uccidere?



Non era una cosa così difficile da promettersi, e al contempo era la più ardua. Erano in guerra, prima o poi si sarebbe dovuta macchiare le mani, e lo avrebbe fatto. Ma solo con il sangue dei colpevoli, non di altri. Non c'era pensiero, sulla terra, che l'avrebbe dissuasa da ciò. Ma quello Jelonek lo sapeva già, non era vero? L'aveva visto. Come vedeva sempre tutto. Senza che lei riuscisse a tenerlo fuori.
- Perchè stai parlando di questo? - chiese quindi, allacciando entrambe le mani sull'orlo del pastrano, sotto il suo collo, intrecciandole con lo spesso materiale dell'indumento.
(Perchè sei ancora qui, con lui?)
Perchè, nonostante tutto, non riusciva a non volersi fidare. Non riusciva a non fidarsi di lui, anche quand'era lui a dirle di non farlo. Evey voleva tutto quel dubbio, voleva quell'incertezza. Senza, avrebbe percorso quel corridoio senza voltarsi indietro.
 
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view post Posted on 20/11/2013, 05:38
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Aveva detto che aveva una scarsa considerazione di se stesso come se ne meritasse di più. Quello che aveva aggiunto, invece, gliene faceva evidentemente meritare di meno. E questo poteva sembrare estremamente paradossale a un Legilimens.
Le parole erano così vane. Assomigliavano tanto alla crosticina caramellata sulla crema catalana: spessa solo qualche millimetro, era comunque l'elemento più degno di nota rispetto ai diversi centimetri di ottima pasticciera poco sotto. Se Evey aveva davvero a cuore la verità, avrebbe potuto accorgersi che nessuno che fosse sano di mente avrebbe confessato quelle cose a una persona che stava ingannando; invece, chiunque avesse tentato di abbellirsi, presentando un'immagine di sé impeccabile e senza macchia, avrebbe dovuto risvegliare un'immediato sospetto di crema pasticciera.
Invece no. A quanto pareva, per Evey il caramello che gli usciva dalle labbra era tutto ciò che componeva il dessert. E nel suo caso, il dessert era di sola crema. Insomma, sì, qualcosa del genere.
Jelonek non si capacitava di come lei non potesse cogliere la quantità di caramello che le stava donando. Aveva condiviso con lei una gran fetta di verità, più di quanto aveva intenzione di fare all'inizio - sempre che all'inizio avesse qualche intenzione così definita - qualcosa di più dolce e abbondante di quella che aveva spartito con la maggior parte delle altre persone. Mandy sapeva del bracciale perché lo aveva costretto a parlargliene; aveva il documento con la collezione dei suoi presunti crimini. Ma non le aveva mai parlato delle cicatrici, lei non le aveva mai viste, certamente non le aveva mai toccate come aveva fatto Evey.
(Era il piatto forte. Meglio lasciarlo per il momento opportuno.)
Non sapeva niente di Eloise, dell'Uomo Simpatico e dell'Uomo Silenzioso, oltre a quello che le aveva scritto nelle sue Lettere Tremanti - quelle che non avevano mai ricevuto risposta. (Ma lui stava ancora aspettando. Per questo non si era mai allontanato troppo.)

-Se fossi stato un opportunista non penso che sarei qui-

La sua testa si voltò impercettibilmente verso il suo personale trofeo, spiaccicato tra la teca e il muro. La sua replica istintiva era stata "non sarei ridotto così", ma era troppo amara per la sua bocca. Lui era un tipo divertente, vero?

-Ma mi sarebbe piaciuto diventarlo, questo sì. Tutti dovremmo sperare di diventare opportunisti, da grandi-

Con la mano libera si grattò dietro la testa, un sorriso agrodolce tra la barba non curata.

-Devi sentirti molto solo... Perché stai parlando di questo?-



(E' il tuo momento.)
J. F. sapeva cosa fare e lo stava già facendo. Abbassò lo sguardo, ma solo per un attimo, prima di tornare a guardarla con un'intensità giocosa. Continuò a sciogliere e riavvolgere tra le dita il ciuffo lucente dei suoi capelli. Lei era così vicina che poteva sentire il suo profumo da ragazza. Sapeva di sogni disillusi, paglia bruciata, con la nota di fondo più malinconica di tutte, l'illusione. Una sua vecchia amica che ora depositava brillii letali sul fondo di quegli occhi turchesi ricolmi di esitazione e pentimento. Quella che probabilmente l'avrebbe uccisa.
Era un aroma intossicante, come la giovinezza di quella pelle senza increspature, di quelle mani affusolate che non avevano conosciuto lavoro o affanno. Era sbagliato. E allo stesso tempo era un dovere.

-Sono stato solo. Per molto tempo- rispose in un tono di pesante consapevolezza che contrastava notevolmente con il sorriso che esitava sulla sua bocca -Da quando sono tornato qui non lo sono più, anche se dovrebbe essere così. Ho fatto molte conoscenze-

Si passò la lingua sulle labbra, in un gesto di ironico imbarazzo. I movimenti tra i suoi capelli cessarono. Entrambe le sue mani raggiunsero e coprirono quelle di lei, appoggiate sulla parte alta del suo pastrano.

-Non voglio che tu mi creda, né che ti fidi di me- il suo sguardo ora era profondo, inamovibilmente fissato negli occhi pallidi ed espressivi di lei -Non basandoti su quello che ti dico, almeno. Forse...- il pollice di lui accarezzò piano il dorso della mano che stringeva -Forse passeremo delle cose insieme. Potrai giudicarmi da quelle-

Si sporse appena verso il suo viso, indagando a fondo nei suoi occhi.

-Penso che tu possa vivere senza le mie promesse. E senza alcuna considerazione di me-

L'angolo delle sue labbra si incurvò, accentuando la fossetta sulla guancia.

-Ci sono cose che non posso cambiare- ammise, con leggera rassegnazione -Se non insieme a te-

Better not to breathe
Than to breathe a lie.




J. F.
 
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Jelonek parlava. Sapeva come parlare. Evey guardò le sue abili labbra muoversi, formulare quelle sillabe che furono in grado addirittura di far sentire in colpa la parte più innocente di lei, ma su una cosa Evey aveva i suoi forti dubbi. La solitudine. L'affermazione di non essere più solo. Evey non ci credeva e non ci avrebbe creduto. Loro erano ancora soli, per quanto si ripetessero il contrario. Non c'era niente e nessuno che facesse sentire loro il contrario.
Non ancora.
Però lo aveva provato. Aveva intinto il dito nella pittura viola di quella mera illusione, sulla barca al Lago, la sensazione di non essere più sola. Aveva passato quel dito sulla tela bianca e fredda che l'aveva nascosta al mondo, aveva disteso la vernice fresca. Aveva osservato le sfumature viola e lilla, lavanda ed ametista. E aveva voluto intingere la mano per intero, passarla su quella tela bianca e ritrarre un volto dagli occhi infossati.
- Forse.... - mormorò solamente, continuando a guardarlo in viso. Di certo, ciò che avrebbero fatto e quel che avrebbero passato le avrebbe insegnato molto dell'uomo che aveva davanti. Molto più delle parole che lui le stava dicendo.

You open your mouth
And a lie comes out.



(E ne varrà la pena? Cosa succederebbe se quelle azioni fossero peggio delle parole? Cosa accadrebbe se lui avesse ragione e tu non avresti dovuto fidarti?)
[Comprerò un'altra tela bianca. E la dipingerò di nero.]
Si sentiva stupida.
Si sentiva stupida mentre lo ascoltava.
Si sentiva stupida mentre appoggiava la testa sulla sua spalla.
Si sentiva stupida nel sentire le dita che che si stringevano attorno alle sue dopo quelle parole.
Interruppe il contatto visivo, appoggiata al suo petto, mentre gli occhi fissavano la parete opposta della Sala Trofei senza in realtà vederla. Non riusciva a scrollarsi di dosso quella sensazione, quella fastidiosissima sensazione, come se fosse sospesa su una sottile superficie di cenere vulcanica solidificata e attendesse che questa cedesse sotto il suo peso per farla sprofondare nel magma, ma non voleva farsi domande su come o quando potesse accadere. Non voleva nemmeno riconoscere che quella fosse cenere, no. Era diamante, una superficie solida e splendida, lucente ed intrigante su cui specchiarsi.
Non aveva più voglia di parlare di quelle cose, ma non era qualcosa che dipendeva da lei: erano le targhette, erano i nomi alle sue spalle che sussurravano, sibilavano, ricoprivano il diamante di cenere bollente, le mostravano la lava che esplodeva pochi metri sotto di lei. Quelle targhette l'avevano allontanata dall'illusione, dalla tela con le sfumature lilla, quelle targhette volevano che lei percorresse quel corridoio da sola.
(Perchè? Lui mi aiuterà! Dovreste esserne contenti.)
Ma quei fruscii, quegli spifferi, quei sibili non erano affatto contenti.
Evey non voleva ascoltarli. Avrebbe fatto le cose a modo suo. A modo loro.
Insieme.
- Non mi è mai piaciuta questa Sala - disse - la evito sempre se posso. E'... triste. -
Si risvegliò e guardò le pareti della Sala Trofei, vuota, deserta, un perfetto quadro di ciò che veramente era: inutile. Un insieme di ricordi e glorie di cui non importava nulla a nessuno, di cui nessuno ne serbava memoria. Una Sala come tante, un posto da attraversare sovrappensiero per andare da una lezione ad un'altra, senza nemmeno notarlo.
(Come te. Ogni volta che ti aggiri per questa scuola. Vuota, deserta, inutile.)
Chiuse gli occhi, come se questo sarebbe bastato per allontanare quei pensieri. C'era stata una sola cosa che non l'avesse fatta sentire vuota, deserta e inutile, e solo dopo così tanto tempo che si era abituata ad avere la stessa consistenza dei grigi fantasmi che popolavano il castello. Qualcosa che assomigliava al diamante, brillante e tagliente.
... qualcosa che era cenere. Nera e bollente.
Alzò il capo e depose un lieve bacio sulla sua guancia, carezzando la barba ispida con le labbra. Avrebbe voluto parlargliene, confidarsi, senza che fosse solamente il suo cervello a comunicare senza il proprio consenso. Voleva pronunciare quelle parole, quei dubbi, quelle incertezze che necessitava di rassicurazioni da parte di lui, ma qualcosa la bloccava.
Paura. Codardia.
Di cosa, Evey ancora non lo sapeva. Sapeva solamente che avrebbe voluto parlare e non ci riusciva.
 
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Did I punish you for dreaming?
Did I break your heart and leave you crying?



Nella sua cella era sempre notte. Non era in grado di ricordare una sola volta in cui si era svegliato vedendo il cielo azzurro al di fuori delle sbarre della sua finestra Nuda e Cruda. Prima di afferrare appieno il feticismo dell'Uomo Simpatico verso gli Incantesimi di Memoria, aveva creduto che ci fosse una qualche stupida Maledizione che impediva ai prigionieri di scorgere i raggi di sole. Con il tempo, aveva capito; di giorno lo torturavano, gli cancellavano la memoria e gli unici ricordi che aveva era di se stesso disteso sul pavimento di pietra umido, il corpo che vomitava dolore cremisi e il lucore biancastro della luna che entrava solo per congelargli la pelle.
(Sei fuori di lì.)
Le ore, i giorni, i più sordidi minuti trascorsi in quelle condizioni gli avevano insegnato che l'unico modo per non essere accecato dal terrore quando udiva la porta della sua cella che si apriva cigolando era provare terrore accecante tutto il tempo; il solo modo per non pensare ai crampi della fame, così forti da fargli spalancare la bocca in silenzio mentre giaceva rannicchiato su se stesso era interpretarli come i passi della morte che arrivava a prenderlo, a portarlo fuori di lì; infine, tutto quello che poteva fare per ridurre la sofferenza dovuta alla consapevolezza che c'era stato un Prima Di, che esisteva ancora un Fuori di Lì oltre quelle sbarre, era negarlo, pensando, ribadendo a se stesso che era sempre stato lì, era nato su quella pietra e sarebbe morto un giorno come tanti altri, fondendosi con il pavimento, diventando una grossa mattonella che non prova niente.
Quelle ore, quei giorni, quei sordidi minuti gli avevano insegnato a estrapolare prima i suoi sentimenti più complessi, poi le molto più semplici emozioni, che ora vedeva come bagliori elettrici nella scansione di un cervello per lo più invaso dall'ombra e dal silenzio.
In quel momento, nella Sala Trofei colorata dalle sfumature plumbee del pomeriggio inoltrato, Jelonek formulò un pensiero che non aveva mai pensato prima.
Pensò che era più facile tenere a mente quelle cose quando si trovava nella Cella Grigia. Pensò che né l'umidità gelida sulle sue guance, né i suoi stralci di sonno, che erano solo brevi svenimenti per il troppo sangue perso o il troppo dolore, né quelle ore, quei giorni, quei sordidi minuti lo avevano preparato a questo.
Sentiva i capelli di lei, con tutti i loro effluvi e il bagaglio di ricordi che portavano, come il Lago, il pioppo a Hogsmeade, la Foresta... sfiorargli il mento. Era strano pensare che lei fosse così minuta rispetto a lui, osservare come le spalle di lei fossero la metà delle sue e constatare che poteva circondarla con le braccia strisciandole l'una sull'altra fino quasi ai gomiti - come stava facendo, per nessun motivo preciso.
(Perché sei fuori di lì. Ma non ne sei così sicuro. Hai bisogno di una conferma.)
Quella era stata una menzogna. Non sapeva nemmeno cosa fosse un totem, anche se lo aveva visto nei suoi pensieri. Era una farsa.
(Però la stai abbracciando perché hai appena pensato a quando...)
L'istante successivo seppe che la sua barba sfatta le stava solleticando la mandibola mentre lei si alzava per posare un piccolo bacio sulla sua guancia. Qualcosa che sarebbe stato più che sufficiente a far saltellare di entusiasmo il Prefetto con il turno di pattuglia da quelle parti.
Incrociò i suoi occhi per un momento. Vide il dubbio che la rodeva, vide che si sentiva in trappola.
(Bene. Lo è.)
Ma non dovrebbe saperlo.
[Quello era tutto ciò che poteva fare. Derubarla dei suoi pensieri, perché ormai non aveva altro modo per entrare in contatto con... chiunque. ]
Avrebbe dovuto assecondarla, invitandola a parlare? Perché si sentiva così, in cosa aveva sbagliato?
A parte tutto?

-Hai ragione- le disse infine, distaccandosi quel tanto da guardarla negli occhi -Sono ancora solo. Tu sei ancora sola. E sei ancora lì dentro-

(Perché la sua vicinanza gli faceva questo?)

-Non so come stare con le persone. Io non... non me lo ricordo-

Respirò, rendendosi conto che il suo fiato si abbatteva sulla fronte di lei, perché erano vicini, anche se si trovavano nella Sala Trofei, anche se lui era lui e lei era lei.

-E farò soltanto errori-

Le posò le labbra sulla fronte, non perché si trattasse di un bacio, piuttosto perché le sue labbra si trovavano comunque lì, e farle avanzare di così pochi millimetri non avrebbe cambiato niente, e avvertire il calore della sua pelle contrastare con il freddo autunnale di cui erano circondati non significava niente.
Una cosa era certa: Jelonek Fedoryen era davvero la peggiore pubblicità di se stesso che potesse esistere.
Volse uno sguardo intorno, alle teche che assistevano silenziose.

-Non sarà qualche morto a dirti quello che devi fare-

La mano intrecciata alla sua diede in una leggera stretta.

-Puoi deciderlo soltanto tu, Evey-

L'illusione della libertà di scelta. Da sempre uno dei fondamenti di quella barzelletta che si chiama Libero Arbitrio.

Do you ever dream of escaping?
Don't you ever dream of escaping...



J. F.
 
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Un piccolo sorriso increspò le labbra di Evey. Chiuse gli occhi, trovando piacevole la sensazione delle sue braccia intorno alla propria figura: esattamente come su quella barca, al Lago, la faceva sentire sicura, lontana dal mondo, lontana da quella sala vuota, deserta, inutile, lontana da quelle targhette che sibilavano alle sue spalle. Nonostante tutto, nonostante i dubbi, nonostante le incessanti domande, Evey aveva un sorriso, un piccolo sorriso che le sollevava gli angoli della bocca. Irrazionale e fuori luogo, ma era esattamente ciò che la rappresentava. Riuscire ad avere un momento di dubbio nella gioia, trovare un barlume di speranza nella sfiducia, sorridere nella rabbia. Tutte cose più che naturali per un paradosso esistente come Evey Atkinson.
Appoggiò ancora la testa sulla sua spalla e riaprì gli occhi, guardandolo in viso.
Jelonek la irritava; per tutta la vita, Evey era stata una Serpeverde distaccata, fredda, che disprezzava i legami, incapace di abbracciare qualcuno che non fosse suo parente per più di due secondi. Parlare di sentimenti e promesse era l'ultima cosa a cui avesse voglia di pensare, erano argomenti stupidi, adatti alle bambine di Tassorosso, non alle donne di Serpeverde.
E poi... Jelonek.
L'idiota del villaggio che non sapeva vestirsi, il burlone teatrale che non sapeva recitare. Uno Zeboim al maschile e umano, a cui aveva concesso di vivere dopo averle impiastricciato i capelli con la crema.
(Se non è affetto questo...)
L'imbecille con i pantaloni a stelline che però a volte diventava strano, diventava tutto fuorché un circense, parlava di battaglie imminenti, mostrava un lato del tutto differente da ciò che mostrava in pubblico. Qualcosa che la spingeva a legarsi a lui ancora più del suo evidente debole per gli idioti. Qualcosa di sinistro...
- Io mi fido di te. - mormorò quindi, alzando il capo e guardandolo negli occhi. Forse avrebbe dovuto dire Io voglio fidarmi di te, ma non c'era una grande differenza tra le due cose. Evey aveva tutta l'intenzione di dargli quella possibilità, di dimostrargli che... le seconde possibilità esistevano, per tutti. Che lei non lo avrebbe abbandonato, non importava quel che sarebbe successo. Lei non abbandonava mai nessuno...
- So che anche se dovessi commettere errori... impareresti a porvi rimedio. -
Perchè mi fido di te.
Lo strinse più forte pronunciando quelle parole. Anche se quegli errori l'avessero ferita, anche se se ne fosse pentita, Evey sapeva che ne valeva la pena. Perchè voleva fidarsi di lui.
Le sue dita salirono con lentezza a percorrere il disegno della sua mascella, in un tocco lieve, timido quasi, ma che significava tutto. Tutto e niente, esattamente com'erano loro. Lo guardò negli occhi e sorrise di nuovo, un sorriso appena accennato, il cuore che palpitava. Si chiese se i Legilimens potessero sentire anche il rumore del battito cardiaco guardando dentro un'altra persona. Sarebbe stato molto imbarazzante; quel pensiero le ampliò il sorriso, trasformandolo da delicato a divertito, riuscendo ad allontanare un po' quella tensione che aveva appesantito l'aria negli ultimi minuti.
- Sai stare con le persone molto più di quanto tu non creda. - disse, scostandogli i capelli dal viso e concedendosi di guardarlo di nascosto. Non sarebbe mai rimasta con una persona che non ci sapeva fare con la gente, la sua insicurezza l'avrebbe fatta allontanare già nei primi minuti. Qualsiasi cosa gli avessero fatto, non era così potente da tenerla lontana.
- Io non me ne vado da qui. - mormorò. Sarebbe stata una bambina Tassorosso, non le importava; gli circondò di nuovo il collo con le braccia, come se fosse importante fargli sentire che lei era reale, era vera, e non se ne sarebbe andata.

One last perfect verse
Is still the same old song
Oh Christ how I hate what I have become

 
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And if you're still bleeding, you're the lucky ones
'Cause most of our feelings, they are dead and they are gone



In tal caso, sbagli.
Questo avrebbe voluto dirle, in risposta alla sua dichiarazione (promessa?) di fiducia nei suoi riguardi, ma qualcosa glielo impediva. Si trattava solo in parte del suo scarso, bucherellato buonsenso, un buonsenso perverso, malato. Quello che lei diceva non aveva alcun senso; quello che pensava ne aveva ancora meno.
(Sei stato bravo.)
J. F. si ricordava ancora qualche trucchetto, a quanto pareva. Ammesso che J. F. avesse dei ricordi, o dei ricordi più solidi dei suoi.
Trucchetto?
Evey gli toccava la mandibola, quella che tante volte era stata fratturata sotto i loro colpi. Le sue dita viaggiavano leggere e non intendevano fargli male. Evey non era Eloise, sebbene un po' tutte le donne fossero Eloise. I suoi polpastrelli vennero pizzicati dalla barba sfatta ma non si ritrassero; non accennarono nemmeno un qualsiasi gesto interpretabile come ritirata.
Evey gli gettava le braccia al collo, sconfiggendo la sua personale barriera di paure assurde... non in quanto tali, ma in quanto rivolte a se stessa, alla possibilità che diventasse troppo diretta nell'esprimere i suoi sentimenti. Jelonek la guardava, scorgendo i pensieri di lei, rivolti al proprio battito cardiaco e alle sue capacità.
Aveva creduto che fosse più difficile ragionare lucidamente trovandola così vicino al proprio corpo - la sede dilaniata dei suoi moti maledetti, dei suoi propositi indegni. Ma lo aveva pensato prima del Lago Nero, prima di quella notte trascorsa a mormorare alla notte mezze verità e mezze bugie, oltre a pensieri, opere e omissioni che erano tutto, fuorché incoraggianti. Ora capiva che quell'effluvio che aveva note cipriate e muschiate, che sembrava emanare dalla pelle di lei e liberarsi a ogni suo gesto, forse esisteva più nella sua testa che nelle sue narici. Capiva che non era niente di così diverso da quello che aveva intravisto in quei sogni tormentati nella sua cella, e che dal suo personale Prima Di in avanti, lui non aveva mai ragionato lucidamente.

We're setting fire to our insides for fun



Era freddo, lì dentro. Le pareti in pietra, i pavimenti in marmo, lo spesso soffitto a volta, non potevano nulla contro il gelo che proveniva dall'esterno. Jelonek lo percepiva dalle sue braccia, che insieme alle gambe erano rimaste così coraggiosamente scoperte, quella notte sul Lago. Era freddo, e forse si era avvicinata a lui per provare qualcosa di diverso.
Bé, si dava il caso che la visita da Madama McClan's avesse portato dei frutti imprevisti - ammesso che la dama per il Ballo fosse definibile come "frutto previsto".
Jelonek abbassò lo sguardo. La sua mente era improvvisamente svuotata, e sapeva che avrebbe parlato a caso. Straparlato. Balbettato. Aveva messo tutto in conto, perché tanto aveva un asso imbattibile nella manica... o nel pastrano, per essere assolutamente precisi.
Si schiarì la voce mentre frugava al di sotto del lungo cappotto e ne estraeva il più significativo tra i suoi averi. Certamente, la cosa più importante che avesse riportato dalla sua ultima gitarella a Diagon Alley.
Non sapeva come iniziare, non sapeva come continuare, non sapeva come concludere. Ma si era portato avanti con il lavoro.
Il largo mantello era ripiegato e legato da un filo di spago luccicante. Incastrato tra la stoffa si trovava un biglietto che recava una scritta disordinata:

CITAZIONE

A Evey,
E' un Amantello, visto che il poncho non bastava.
Per la prossima volta che pettineremo Zeboim

J.


Si passò la lingua sulle labbra mentre con una mano si grattava energicamente dietro la testa.

-Ahm... ha un nome stupido-

Le disse, spingendoglielo nei palmi.

-Ecco-

Trovò il coraggio di risollevare lo sguardo su di lei, mantenendosi la mano dietro la nuca. Sfortunatamente per lui, se non le fosse piaciuto, se ne sarebbe accorto subito.
Così come avrebbe realizzato subito il contrario.

J. F.

Edited by J. F. - 24/11/2013, 01:23
 
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Interrogativa, Evey si scostò di mezzo passo mentre Jelonek trafficava con il proprio pastrano (per la seconda volta). Gli gettò uno sguardo curioso ed allarmato al contempo: di nuovo altre stramberie e diavolerie assolutamente non gradite riguardo alle gomme da masticare? Evey sentiva che non ne avrebbe sopportato ancora. Sarebbe fuggita gridando e piangendo, ne era sicura.
Ma non si trattava affatto di una gomma da masticare.
Estremamente sorpresa, guardò Jelonek che estraeva un pacchetto di stoffa avvolta in uno spago molto vistoso. Evey spostò lo sguardo da lui al pacchetto, colta alla sprovvista, accogliendolo tra le mani e dunque leggendo il biglietto.
Le labbra di Evey si allargarono in un sorriso radioso. Si sentì ancora stupida per non riuscire a trattenere quella debolezza, ma sapeva che, per quanti sforzi avesse fatto, quel sorriso sarebbe rimasto sul suo volto. Non avrebbe nemmeno saputo dire che tipo di sorriso fosse: non era affatto come la risata sul lago, puramente liberatoria e divertita; era qualcosa di più trattenuto e al contempo inaspettato, della stessa liberatoria natura della risata, ma più...
Compiaciuto. Soddisfatto, colpito, grato. Qualcosa che si estese ai suoi occhi in modo repentino e naturale, riflettendo tutte quelle caratteristiche in un unico brillio.
Rigirò il biglietto tra le dita, osservandone la grafia disordinata e scomposta. Sembravano rune o qualche alfabeto appositamente inventato per far capire il vero significato delle parole solamente a pochi eletti. Lo infilò nella tasca dei pantaloni, continuando a sorridergli. Non sarebbe stato uno di quei pezzi di carta in cui si scrivevano gli auguri all'ultimo momento da buttare nel cestino, anche se ci aveva messo un po' a decifrare la calligrafia.
- Mi sembrava strano che ti fossi gonfiato improvvisamente. - disse divertita, in tono di scherno, ma continuando a sorridergli così... fastidiosamente. Non ce la faceva, era più forte di lei.
- Credevo che la Hall ti avesse costretto ad entrare in squadra e sottoposto ai suoi allenamenti assassini - aggiunse, abbassando di nuovo lo sguardo sul regalo e sfiorandolo con le dita. Si zittì, realizzando di aver cominciato a parlare a sproposito per compensare la vulnerabilità di quello stramaledetto sorriso che non voleva proprio cancellarsi. E lei non ci pensava proprio a cancellarlo.
Era soffice, scuro; di sicuro teneva molto più caldo del poncho e sperava che fosse più ampio di quest'ultimo, in modo da non lasciarlo mezzo scoperto e farle venire tremilsettecentodue sensi di colpa.
Alzò di nuovo gli occhi su di lui, investendolo con quel sorriso costante, che emergeva con forza, come se non fosse esibito da così tanto tempo da non ricordarsi l'ultima volta. La sua mano si intrecciò di nuovo alla sua, le dita che stringevano le dita. In realtà non c'era molto da ringraziare, era un regalo per entrambi. Sarebbe servito a tutti e due, non solamente a lei, Evey si sentiva un'egoista a ringraziarlo.
Per la prossima volta che pettineremo Zeboim.
(Perchè ci sarà una prossima volta).
- Grazie. - mormorò, senza distogliere gli occhi dai suoi. Si portò la sua mano alla guancia, con un gesto leggero, e gli baciò il polso, posandovi le labbra in un tocco leggero, quasi sfuggevole. Guardò di nuovo il suo regalo, tentata di slegare il nastro, ma non pensava che farsi vedere in giro con un Amantello fosse una buona idea. Doveva ancora capire bene come reagire da sola con lui, figurarsi dover andarci in giro sotto lo sguardo...
Di chi? Chissene importa!
Slegò il laccio, lasciando la sua mano, e annodandoselo temporaneamente intorno alla mano. Spiegò il mantello davanti a lei impugnandolo saldamente: era largo quanto una coperta, piuttosto elegante per i gusti di Jelonek: Evey suppose che si fosse impegnato parecchio per non acquistare qualcosa di altamente stravagante con ippogrifi che ruggivano pianeti o cose simili. Cosa che apprezzò ulteriormente.
Fece compiere all'Amantello un elegante e vistoso movimento che lo gonfiò e lo pose sulle spalle di lui (dovette alzarsi sulle punte dei piedi): si, lo ricopriva per intero, e avanzava uno spazio discreto per lei.
Tenne il mantello stretto per i lacci del collo e trasse Jelonek a sè, continuando a sorridergli. Avvicinò il volto al proprio, ridendo. L'atmosfera tesa e pesante di poco prima era totalmente svanita, inghiottita dalla calligrafia a malapena comprensibile e dal suo sorriso.
- Anche se il poncho rimane il mio preferito. - confessò in un bisbiglio che avrebbe sempre e per sempre rinnegato sotto le torture più atroci.
 
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Pathetic oblivion
Forgotten hopes buried in your soul's lonely grave



Jelonek si era staccato appena dalla parete per permettere a Evey vi avvolgerlo con l'Amantello. Non c'era niente da dire: funzionava. E non si riferiva certo all'Amantello. Bé, anche a quello.
Evey aveva messo da parte la consapevolezza della sua Legilimanzia, in favore in un rapporto più... puro? Spontaneo? Dal punto di vista di Jelonek si trattava di due aggettivi vuoti (o dimenticati). I sentimenti si presentavano alla sua Loquace Maledizione assolutamente scarni, spogli da qualsiasi addobbo.
"Sono felice e mi viene da sorridere."
"Cavolo, questo mi rende felice."
Oppure, molto più semplicemente: "Felicità".
Era una sfilata di relitti, immagini che erano poco più di qualche smorta affermazione atona. Era impossibile abbellirli ed era molto facile stancarsene in fretta, andando poi a rivalutare anche i propri. Era possibile rimanere così "semplici", dopo avere provato disgusto ed esasperazione per l'altrui semplicità? Tutto si riduceva a barlumi essenziali a malapena interessanti, così come lo spazio si riduceva all'infinito fino a giungere a ridicole, inutili stringhe vibranti. Jelonek osservava questa vetusta parata con distacco e occhi sempre più stanchi; impiegava poi la maggior parte del suo tempo a mascherare la sua demotivante indifferenza, per non spiazzare troppo gli esseri umani che lo incontravano, recando con sé la loro curiosità, il loro bagaglio emotivo che credevano invariabilmente personale e variegato. Si era creato un callo nei suoi emisferi, e non era certo il solco centrale che li univa; no, era stato deprivato di quei fondamenti che costituivano le "vere" emozioni e si adoperava senza sosta per riempire il vuoto di sostituti convincenti.
La verità era che nessuno aveva provato emozioni di quel genere così vicino a lui. Nessuno aveva provato emozioni di quel genere per qualcosa che aveva fatto lui.
(Cosa aveva detto a proposito l'Uomo Simpatico?)

|| Non hai accettato di andarli a picchiare per soldi. Uno come te, dei soldi, non se ne fa nulla. No, tu volevi guardarli negli occhi e provare quello che provavano loro. A dire il vero, volevi provare qualcosa, qualunque cosa. Ed eri pronto a uccidere per quella scarica di adrenalina che bevevi attraverso i loro sguardi. Dì che non è così, bastardo. Sono qui. Avanti, negalo. ||



(Non lo hai negato. Forse perché eri più preoccupato per il braccio che penzolava con un angolo strano dalla sedia, con le ossa del gomito che strisciavano tra loro come se fossero ricoperte di spilli... o forse era stato quell'altra volta, con il pugnale nel ginocchio? O forse... forse non lo hai negato perché era vero.)
Perché per molto, molto tempo si era convinto che tutto ciò che poteva fare provare alle persone fossero dolore, paura, rabbia, panico. L'unica alternativa che aveva vissuto lo aveva portato a distruggersi il fegato e a sfracellare zigomi a caso in qualche vicoletto malfamato. Quello era l'unico modo per provare ancora qualcosa senza scommettere su pezzi di sé (infatti, quelle non erano scommesse, ma debiti, e lui non aveva mai rischiato di perdere se stesso, si era assicurato che accadesse).
Evey non si bloccava più. Le sensazioni portavano a sentimenti, ma fino a pochi secondi prima, lei aveva fatto in modo di arrestare il processo. Lui poteva vedere tutto comunque, giusto? Sembrava non esistere un buon motivo per esprimere quello che provava (con una sola eccezione, una risata che non era riuscita a fermare, che lo aveva disarmato per un fatale attimo), per vedersi così, come "una Tassorosso".
Quel regalo aveva reciso i fili con cui si tratteneva, dissipato la cortina di imbarazzo che era poi pura e semplice paura di affidarsi a qualcuno, di affidarsi a lui. Evey non conosceva freni, non lasciava sentimenti a metà; e Jelonek la guardava sorridere, pensando che era quello ciò di cui lei sentiva il bisogno, ciò che davvero ricercava in lui. Voleva amare all'estremo. Avrebbe fatto uno strappo a qualsiasi regola che si era auto-imposta, sorridendogli e abbracciandolo e desiderando tutto quello che lui poteva darle, se solo avesse avuto un pegno del suo affetto; lo avrebbe condannato e gli avrebbe dichiarato guerra per un po' di torta tra i capelli. Voleva essere, anche se ciò avesse significato...
... correre giù da quella collina, dimenticando l'esistenza stessa del gazebo, lasciandosi alle spalle quello che aveva conosciuto.

Pathetic oblivion
Remember how you were before you locked your heart away?



Forse Evey Atkinson non poteva prevedere tutti gli esiti. Ma Jelonek non era così certo che, anche conoscendoli, lei lo avrebbe allontanato.
Il danno che la Stanza nelle Catene le aveva provocato richiedeva una cura. Anche scadente come quella che poteva offrirle lui. Anche strumentale, e ipocrita, e goffa come quella che poteva offrirle lui.
Quella era la misura della sua rassegnazione.
(Mentre un braccio di Jelonek le avvolgeva il busto al di sotto del mantello, l'altra mano le toccava appena le labbra, percorrendo la linea di quel sorriso. Perché era una vita che lui non vedeva un sorriso da così vicino ed era una vita che non riusciva a distinguere la realtà dai ricordi rosi dal tempo.)

-Bé...-

Fu tutto ciò che emerse da quella tempesta confusa di progetti, rimembranze, comprensione. Era il rumore delle scarpe che strisciano sulla corteccia dell'albero quando si rinuncia a guardare dal ramo più alto e si accetta di tornare con i piedi per terra.

-... non ci rende comunque invisibili. E non ho pensato a una storia da raccontare al Prefetto che girerà l'angolo, da qui a poco-

Non riesco a pensare a una storia da raccontare, adesso. Spero che ci riesca tu.

-Possiamo fingere di essere impegnati a pulire le pareti-

Del resto, non avevano ancora un nome, e "studentessa impegnata con Professore a tirare a lucido la Sala Trofei" suonava come qualcosa di veramente plausibile.

J. F.

Edited by J. F. - 25/11/2013, 06:08
 
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Rimase a guardarlo, continuando a sorridergli, le dita intrecciate ai lacci del mantello. Era un regalo che aveva un certo valore, Evey non avrebbe tardato a restituirgli: era giusto, Jelonek si era meritato di rientrare nelle possibilità di dispendio dei suoi risparmi.
(E' solo un mantello. Non è nulla di che.)
No, non era un semplice mantello. Era un regalo, un regalo con un biglietto. Ed Evey lo aveva apprezzato enormemente, bisognava dargliene atto.
Date a Jelonek quel che è di Jelonek.
Tuttavia... le parve di vedere qualcosa nel suo sguardo, qualcosa di totalmente diverso da quel che c'era nel suo e da quello che le sarebbe piaciuto vedere. Non avrebbe saputo dire di cosa si trattasse, fu un momento solo, prima che lui l'avvolgesse al di sotto del mantello.
Evey sorrise: non era niente, se non la sua propensione alla paranoia e all'esagerazione, le stesse per cui avevano discusso poco prima. Andava tutto bene, lei era contenta e sorrideva. Come ogni volta quand'era con lui. Non avrebbe rovinato quel momento per una semplice impressione, specie quando le dita di Jelonek le percorrevano il sorriso, allontanando definitivamente quel dubbio, relitto della precedente conversazione.
Si. Andava tutto bene.
Gli baciò le dita che le erano state appoggiate sulle labbra, per poi ridere ancora, sommessamente. Niente da fare, quella fastidiosa voglia di sorridere non se ne andava, e ciò che lui diceva di certo non contribuiva.
- Sono certa che nessuno lo metterebbe in dubbio! - disse, schernendolo. Era proprio la storia perfetta, lucidare le teche (con le dannatissime gomme da masticare) con un Amantello che li circondava. Chi non ci avrebbe creduto?
Abbassò lo sguardo sui lacci che ancora teneva tra le dita. Sarebbe stato più che saggio staccarsi da lui e arrotolare il mantello (magari facendolo sembrare un semplice, comune mantello fintantoché fossero stati insieme), ma Evey non si reputava una persona saggia. E nemmeno Jelonek lo era.
Solo un altro po'...
Appoggiò la testa sulla sua spalla e si concesse di godere, per qualche altro secondo, della sensazione di calore nata dalle braccia di lui attorno al proprio busto. Era piacevole e rassicurante, intrisa di significati che andavano al di là del semplice contatto fisico, significati che erano ancora un mistero, ma che in quel momento erano graditi, le facevano muovere le braccia per avvolgerlo a sua volta.
- Oppure possiamo dire che mi sono impigliata mentre ti dimostravo che non hai comprato un mantello normale! Non sarebbe difficile farlo credere, vista la tua incapacità nel vestirti. - suggerì dunque con un ghigno, a voce bassa, continuando a rimanere stretta a lui.
Solo un altro po'...
Ma poi... chi se ne importava del Prefetto dietro l'angolo? Davvero i Prefetti non avevano nulla di meglio da fare nei finesettimana in cui erano liberi di andare ad Hogsmeade? Forse era proprio per quello che la Sala Trofei era deserta. Forse era proprio per quello che nessuno sarebbe venuto a sorprenderli e a disturbarli.
Alzò gli occhi su di lui, rimanendo appoggiata alla sua spalla. Gli sorrise ancora, di nuovo, senza essere capace di stancarsi di farlo. Si concesse qualche segreto momento per guardarlo e apprezzare i dettagli del suo viso, rendendosi conto di trovarlo sempre più gradevole ogni volta che lo guardava. Mille cose le ronzavano in testa, e nessuna che sembrava degna di essere pronunciata. Voleva ringraziarlo, e non solo per quel mantello che stavano testando, ma per una serie di altre cose che stava facendo, di cui forse non era consapevole.
Farla stare bene. Non era una cosa da tutti.

[Grazie.]



Per il mantello. Per la gomma da masticare. Per la sciarpa tarmata strofinata con forza sulla sua testa. Per la crema impiastricciata tra i capelli. Per Pablo e Pedro. Per le bollicine a tradimento. Per gli assurdi cognomi inventati. Per il rischio di espulsione. Per il tuffo in acqua. Per il furto di una barca. Per la minaccia ad un Prefetto. Per il fuoco nella Foresta Proibita. Per i biscotti senza il tè. Per l'effrazione nell'Ufficio della Preside. Per lo scarabeo inesistente. Per una scommessa pericolosa. Per il poncho ricucito. Per la lettera sul poncho da ricucire. Per il poncho sbranato. Per gli stupidi nomi dei gattini bianchi.
Per un bacio sul lago.
 
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The inequity of fate
The pains of love and hate



Per arrabbiarsi o tenere il broncio era necessario mettere al lavoro circa settanta muscoli facciali. Per sorridere, soltanto una decina. Eppure, i sorrisi erano più rari. I sorrisi erano più difficili.
C'era un grande antro oscuro nel Piano, un enorme interrogativo. Era come partire per il deserto del Sahara senza portarsi una borraccia di acqua, un mantello con cui coprirsi la notte, degli anfibi per non offrire le caviglie in pasto a serpenti e scorpioni. Jelonek aveva creduto di essersi avviato per quel viaggio a testa alta, lo sguardo fisso verso il suo obiettivo. L'odio era la sua unica libagione, il freddo era ricercato, non rifuggito, e i suoi piedi erano pronti a calpestare qualsiasi ostacolo, senza paura per il veleno. Il fine giustifica i mezzi: una falsità consolatoria, un premio di indulgenza verso se stessi. Nel suo caso, nascondeva la verità.
Il fine nobilita i mezzi.
Non ricercava giustificazioni, era al di là di qualsiasi perdono; era stato giudicato, processato e giustiziato, e i peccati continuavano ad accumularsi sulle sue spalle, a dimenarsi tra le ferite mai del tutto rimarginate della sua pelle - una mappa per ritrovare cosa era andato storto nel suo spirito.
Evey Atkinson pensava di essere pronta per lui. Lui era convinto di non esserlo per lei. Si sbagliavano entrambi. Con ogni minuto che passava, Jelonek era sempre meno sicuro su chi, tra loro, avrebbe pagato il prezzo più amaro.
Ma in quel momento non aveva importanza. Questa era la fregatura. Il brusco abbassamento di temperatura nella notte, il serpente nello stivale bucherellato, la gola riarsa. Stava contraendo il male del viaggiatore, mentre la meta si faceva più lontana, assomigliando a un miraggio.
(È questa la cosa più significativa dei miraggi, in realtà. Non sono quello che sembrano. Non è il tuo obiettivo che si riflette sfocato sull'orizzonte, nuotando tra le illusioni provocate dalla tua sete insaziabile. Il miraggio sei tu. Il mezzo nobilitato. L'oasi onirica e in realtà inesistente. Quando lei si piegherà per bere alla fonte di quel sollievo ingannevole, si ritroverà in gola soltanto sabbia.)
C'era sempre un momento in cui Jelonek si fermava a guardarla. J. F. sapeva cosa fare, come sempre, da quando era arrivato - del resto, l'omino nel suo cervello lo aveva assunto a tempo pieno proprio per quel motivo, per non fargli perdere completamente la testa. Jelonek però si fermava e la osservava, studiando le reazioni alle sue parole. I suoi pensieri, in quel frangente, diventavano un ronzio indistinto, un rumore bianco di fondo. Quelli erano più o meno gli stessi, con tutte le persone. E quelli che sapevano del suo Potere Scomodo imparavano ben presto a non guardarlo negli occhi, a meno che non fosse assolutamente necessario.
Era davvero molto, moltissimo tempo che Jelonek non trascorreva tutte quelle ore con qualcuno. Si era dimenticato cosa potessero rivelare le espressioni del viso, qualcosa che la sua distrazione lo portava a liquidare come elemento marginale, secondario. Bombardato com'era da ricordi imbarazzanti e segreti osceni, si era dimenticato cosa si potesse provare per via di qualcuno che esprimeva qualcosa davanti ai suoi occhi.

The heart-sick memories
That brought you to your knees



Continuava a sorprendersi. Continuava ad arrestare qualsiasi corsa stesse improvvisando la sua mente, qualsiasi arrampicata, e si bloccava a valutare quello che stava succedendo. Lo studiava, lo soppesava... lo ammirava.
(Lo stupore è una buona cosa. Dovresti preoccuparti qualora dovessi cominciare ad abituarti.)
Non si gioca con il cibo. A meno che il cibo non lo voglia.
Lei aveva sviluppato una certa sensibilità per gli sguardi altrui. Nemmeno la cortina di spietato ottimismo che le illuminava gli occhi (e questo, poi? Vogliamo parlare di questo? Di come ti faccia sentire?) poteva ignorare quel sesto senso, quel sesto sussurro che nella sua mente le confermava che qualcosa, in lui, era andato terribilmente storto. Nonostante questo, c'era la Vera Evey da considerare nell'equazione. Lei non voleva che la Falsa Evey si salvasse; tutto il contrario.

-Sei molto sicura di te, signorina Tenterton- osservò, sforzandosi inutilmente di lasciare la sensazione delle sue labbra su suoi polpastrelli al di fuori della sua coscienza -Non sono certo io, blasonato professore di Occlumanzia, a rischiare di essere Espulso, qui-

Certo che no.

-Anzi, a Mandy farà immensamente piacere vedere che mi sto...-

Mmm.
Si passò la lingua sulle labbra, poi si grattò la barba sul mento, gli occhi ridotti a fessure mentre andava alla ricerca del termine adatto.

-... ambientando-

Si schiarì la voce, sul viso l'anticipazione di un sorrisetto.

-È questo che le direi, visto che... Visto che... bé... non abbiamo ancora un nome-

Ricambiò il suo sguardo, lievemente incuriosito. Per nessuna valida ragione, il braccio attorno alla sua vita la strinse, avvicinandola ancora di più a sé. Forse per sistemare meglio l'Amantello. Forse per peggiorare la loro situazione, in caso un Prefetto voltasse l'angolo, visto che tanto non le importava niente.
Forse perché una valida ragione non serviva.

J. F.
 
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Think lovely thoughts.



Evey arricciò le labbra, dando al proprio sorriso una sfumatura divertita; da quel che aveva visto, il blasonato professore di Occlumanzia aveva una vera e propria passione per i guai, dubitava che fosse così difficile per lui essere cacciato fuori dal castello, specie se sorpreso in atteggiamenti Tassorosseschi con una studentessa. Evey avrebbe inventato centotredici storie plausibili per salvarsi la pelle, come una vera Serpeverde; era una dote che aveva innata, riuscire sempre a giustificarsi qualsiasi cosa accadesse.
(E dare lui in pasto ai lupi? Forse ci saresti riuscita, molto prima di questo momento. Ora affonderesti con lui. E potrebbe non dispiacerti più di tanto.)
- Io potrei sempre dire che il professore mi ha costretto - ipotizzò con tono soave - che mi ha puntato contro la bacchetta e mi ha ordinato di raggiungerlo sotto il mantello con il nome stupido. -
Gli rivolse uno sguardo divertito, alzando il sopracciglio sinistro. Sarebbe stata una scena lacrimevole, Evey si reputava una brava attrice; avrebbe pianto di fronte alla Preside, raccontando del terrore che il professore di Occlumanzia le aveva suscitato costringendola a provare con lui quell'orribile mantello.
- Si, non ne dubito. - disse ironica, umettandosi le labbra con la lingua. Kedavra avrebbe fatto indubbiamente i salti di gioia sapendo quanto bene Jelonek si stesse ambientando, tra gite in barca e Amantelli in Sala Trofei. Non avrebbe potuto negargli l'onorificenza di Professore dell'Anno, magari avrebbe avuto un trofeo vero e proprio in quella Sala.
Rise, tornando ad appoggiare la testa sulla sua spalla: era ampia e comoda, nulla da dire su questo. Un pregio che gli riconosceva ed Evey non era solita riconoscere i pregi altrui. Il sorriso divertito si addolcì appena sentendolo trarla a lui; afferrò la mano con cui si era grattato il mento e ne intrecciò le dita alle proprie, prima di portarle gentilmente sulla propria guancia.
(Questo sarebbe difficile da spiegare.)
Un nome, IL nome. Ancora non lo avevano; come si faceva in quei casi? Evey si sentì agitare. Se l'era chiesto quando ci pensava, invece di studiare Erbologia, fissando i disegni delle piante senza in realtà vederli, distrazione che ultimamente le risultava più che facile e assolutamente non richiesta. Lei e Jelonek... si vedevano? Indubbiamente. Gita sul Lago esclusa (quella era stata una scommessa, anche se per lei era stata la parte più importante. Le scommesse contavano?), si erano visti tre volte. Questo significava qualcosa?
Non avevano ancora un nome.
Era importante che avessero un nome? E se a lui non fosse piaciuto? Le cose diventavano improvvisamente serie e reali quando acquisivano un nome. La nonna le aveva insegnato che le cose venivano da sé, ma si nominavano da sole? E poi forse Jelonek non voleva avere un nome con lei. Avere un nome con qualcuno significava non poterlo avere con altre persone, Jelonek... avrebbe voluto vedere altre persone e la cosa magari gli piaceva.
Jelonek che pettina Zeboim con qualcuno che non sei tu.
Evey giocherellò di nuovo con i lacci del mantello, sollevando la testa dalla sua spalla. Non si era mai considerata gelosa, ma a quel pensiero sentì lo stomaco che si stringeva in modo poco gradevole.
No, decisamente. La cosa non le sarebbe piaciuta.
- Forse... il nome lo abbiamo, ma dobbiamo ancora capirlo! - suggerì, riportando lo sguardo su di lui e continuando a giocherellare con i lacci del mantello. Già, e come si potevano definire? Vedenti? Pettinatori? Pettinatori le piaceva. Non dava l'aria di essere nulla di serio, era giocoso, forse non lo avrebbe messo a disagio.
(Sei proprio sicura che ti piaccia?)
Evey era infastidita dai suoi stessi interrogativi. Era come se qualcosa, dentro di lei, spingesse per avere di più, senza che lei potesse farci nulla, prendendo il sopravvento in modo irritante e finendo con porle delle domande che alla fine considerava più che legittime. E Jelonek era stupido perchè aveva introdotto l'argomento; e lei era ancora più stupida perchè non sapeva come affrontarlo senza fare la figura dell'oppressiva inopportuna.
Evey non era mai stata in una relazione; non aveva mai avuto un legame che andasse oltre ad un bacio. Come faceva a capire quale diavolo di nome avessero? Urgeva una consulenza.
Con chi? L'unico con cui poteva parlarne era Jelonek. Magari Sesy, senza fare nomi. O Diamante, la bionda sembrava esperta di quelle cose.
Si rabbuiò appena nel realizzare quanto fosse disastrata, e qualsiasi nome avessero o avessero avuto, era solo l'inizio. Giusto?
Alzò lo sguardo su di lui e lo guardò: stranamente, quella vista riuscì a tranquillizzarla, in modo apparentemente inspiegabile. Forse concentrarsi sul nome che avevano era sbagliato; forse avrebbe dovuto semplicemente focalizzarsi su quale nome avrebbe voluto che avessero e raggiungere quella meta, pian piano. Non sembrava così terribile come prospettiva...
E qual era, quindi, quel nome?
Evey non lo sapeva ancora. Ma le piacevano molto suo e sua. O mio e mia. Un po' possessivi, certo, ma se la prospettiva era di raggiungerli pian piano...
- Ti odio, sai? - gli disse improvvisamente, ben sapendo che lui poteva vedere tutti i viaggi mentali che una semplice osservazione le aveva fatto fare in meno di due minuti. Strinse gli occhi al suo indirizzo; non era affatto divertente e stava facendo tutto da sola. Lui non aiutava affatto, anzi, peggiorava le cose facendola sentire ancora più Stupida Tassorosso.
In tutto quello, la mano che gli poggiava sulla scapola fece più pressione, avvicinandolo a lei. Un po' possessiva.
 
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view post Posted on 26/11/2013, 04:50
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Sarebbe stato molto rispettoso e galante, da parte sua, distogliere lo sguardo e fissarlo su qualche particolare del soffitto o su di un qualche riflesso opalino sulle teche. Alla fine, era il corrispettivo legilimantico di voltare la testa mentre lei saliva sulla scialuppa destreggiandosi tra le sue caste virtù. Jelonek era riuscito brillantemente nella seconda impresa, perché nonostante la sua avversione per i libri nel Prima Di, in qualche modo si era appassionato alla lettura, sebbene si trattasse soltanto riviste. Aveva imparato di più su un numero di Baby maghetti con i fiocchi (trimestrale sull'accudimento magico della prole, rubriche sul borotalco e sulle spille da balia più efficaci) piuttosto che in dieci anni di Hogwarts... e lui poteva davvero dirlo. Le riviste, con le loro pagine lucide e profumate, gli errori di stampa, i tutorial animati su come dissimulare le lentiggini utilizzando l'ultimo Fondotinta Magic Decay ("con vera polvere di fata!") costituivano la realtà spiaccicata su carta, in tutte le sue contraddizioni, le sue ossessioni, le sue paure. Riviste, fumetti e fotoromanzi non avevano nulla della superbia dei quotidiani o del rigore dei libri, scritti appositamente per stordire. Nessun Teoria e Magia Difensiva o Manuale degli Incantesimi gli aveva mai detto che fissare una ragazza che agita le gambe per salire su una scialuppa era sbagliato o comunque comunemente considerato offensivo o... qualcosa del genere. Come avrebbe potuto scoprirlo, se non tramite una temibile esperienza diretta dalle conseguenze probabilmente infauste?
Purtroppo, però, quando si parlava della sua Scomoda Compagna, non c'era rivista che potesse aiutarlo. Aveva inviato molti Gufi alle testate che giudicava più appropriate al suo problema, ma una lettera che diceva "Non posso controllare la mia Legilimanzia, come mi comporto nella vita di tutti i giorni?" finiva probabilmente di filato nel cesto dei burloni. Solo una volta, Hetty Princett, della rubrica La Panna del Cuore gli aveva risposto, chiedendogli un'intervista... e ovviamente gli energumeni del Ministero gli avevano tassativamente proibito di farsi vedere. Ancora, nelle notti insonni d'estate, Jelonek si ritrovava a pensare alla splendida figura che avrebbe fatto la sua foto, centrale, tra la "na" e la "d". Ma non tutto era perduto. In fondo, Daisy Hall gli aveva chiesto a sua volta l'aiuto per un articolo, e il suo sogno non andava ancora del tutto abbandonato.
Insomma, niente e nessuno, a parte forse Hetty Princett in persona, lo avrebbe convinto che fissare una ragazza in un momento del genere potesse essere una forma di maleducazione, nel suo caso.
Dal momento che Jelonek non lo pensava, e dal momento che J. F. era molto interessato ai treni che passavano per la testa di Evey, egli continuò a guardarla, analizzando tutte le evoluzioni di quel pensiero.

You cannot hide
I know you tried
To be who you couldn't be
You tried to see inside of me



Era bastato molto poco a scatenare quel maremoto. Non avrebbe potuto prevedere tutte quelle circonvoluzioni, quelle increspature, quelle sfumature. Tuttavia, era qualcosa di controllato. Evey era contesa tra dubbi su quello che avrebbe dovuto dire, quando in realtà non era affatto un problema, con lui (forse... era quello il problema). Su ciò che avrebbe dovuto provare... bé, Evey vedeva il tutto con una rassegnazione ormai più bonaria che risentita. Aveva combattuto il cambiamento, si era opposta, infine aveva cercato di negarlo.
La Stanza delle Catene le aveva fornito tutta la rabbia, la malinconia e l'isolamento che le erano serviti per sostenere la sua maschera d'argento. Ma i suoi pensieri, ora, avevano un respiro diverso. Non si stava conciliando con se stessa, non ne aveva mai avuto bisogno.
Si stava conciliando con lo sprezzo che provava verso gli altri. La debole armatura che non l'aveva protetta nemmeno per un istante dal timore che serbava verso qualsiasi altra persona.
Jelonek era quanto di più lontano dai suoi standard potesse esistere. Lo sapeva. Ma quando l'aveva incontrata, aveva capito che forse non avrebbe avuto alcuna importanza.
E ora, lei aveva appoggiato la testa nell'incavo del suo collo, professando di odiarlo perché vedeva. Erano molto oltre la negazione, ormai, dunque non avrebbe avuto senso fingere - più del necessario.

-Non ci serve un nome- fece Jelonek, sollevando appena le spalle -Se non lo sappiamo nemmeno noi, nessuno potrà estorcercelo con la forza-

Era facile, a quel punto, nascondere la mano. Dalla sua parte aveva il fatto di non averle mai posto veramente quella domanda, se non tra le righe. Ma Evey era una ragazza. Leggere tra le righe era una specialità insita nel suo DNA.
(Così come vedere linee immaginarie.)

-Siamo i parrucchieri di Zeboim. La signorina Pemperson-Tretterson-Parkinson e il professore di Occlumanzia. Due che...- l'angolo della sua bocca venne stuzzicato -... vanno in giro insieme e fanno cose insieme-

Non nutriva la sua presunta possessività, questo no. Ma quella, da che ne poteva sapere Jelonek, non si nutriva di parole. Le sollevò appena la mano di cui lei si era appropriata, strisciandovi il mento pungente di barba e appoggiandovi appena le labbra.
Al momento, avevano un nome troppo lungo. Il tempo lo avrebbe condensato a una parola più semplice?
Questa era una delle poche cose che Jelonek non poteva sapere.

J. F.
 
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view post Posted on 27/11/2013, 01:00
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«Jenny would dance with her ghosts».

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Don't tear me down for all I need
Make my heart a better place
Give me something I can believe
Don't tear me down
You've opened the door now, don't let it close



Evey accarezzò il disegno del suo volto, le dita che si pungevano della barba di lui senza trarne alcun fastidio. Forse aveva ragione lui; forse davvero non avevano bisogno di un nome e andava bene rimandare, aspettare, come diceva la nonna, lasciare che le cose venissero da sé. Essere due persone che andavano in giro insieme e facevano cose insieme. Incurvò ancora le labbra verso l'altro, riportando lo sguardo su di lui.
- Non mi piace Pemperson. - disse con una piccola smorfia di disapprovazione. Le ricordava una via di mezzo tra un peperoncino e un panno assorbente, non la reputava una buona cosa. Anche se sapeva perfettamente che, proprio per aver espresso il suo disappunto, ora Jelonek l'avrebbe chiamata così fino alla fine dei tempi, magari anche in privato. Ottimo.
(Quand'è che imparerai?)
- D'accordo allora... niente nome. - concluse, stringendosi nelle spalle.
(E niente più allusioni. Visto cosa succede? )
Evey odiava rimuginare in presenza di altre persone. Figurarsi rimuginare davanti a qualcuno che poteva sedersi e prendere i popcorn nel guardare tutte le paranoie che le frullavano in testa. Che poteva farci? Assolutamente nulla.
Tuttavia, sorrise. Si allungò sulle punte dei piedi e lo baciò con delicatezza sull'angolo delle labbra, le dita che ancora gli sfioravano la guancia. Non era del tutto disastroso come pomeriggio, crema spiaccicata a parte. Evey poteva apprezzare la sensazione di starsene sotto al mantello, nella Sala Trofei deserta, così vicini mentre fuori il freddo gelava l'aria e assaliva la pietra. Lei non aveva per niente freddo; non questa volta.

Can you still see the heart of me?
All my agony fades away
when you hold me in your embrace



- Voglio farti un regalo anche io. - disse senza abbandonare il sorriso. Aveva svariate idee al riguardo, ma avrebbe scelto all'ultimo momento per non rovinargli la sorpresa.
- E non vale guardare! - lo informò in anticipo: in ogni caso non avrebbe funzionato, Evey richiamava alla mente un sacco di cose, anche le più inutili come le scatole delle Gelatine Tutti I Gusti + 1 riccamente agghindate con fili d'erba strappati dal Campo di Quidditch (quindi fili d'erba di gran valore, altro pegno del suo affetto per arrivare a deturpare il Sacro Campo). Jelonek non avrebbe mai indovinato, tra i tanti candidati, quale sarebbe stato quello vincente. E sarebbe stato Vincente con la V maiuscola. Sarebbe stato Il Regalo, di quelli che lei avrebbe sperato tutta la vita di ricevere.
(Ti eserciti già con l'Occlumanzia? Tanto non hai possibilità.)
Provarci non costava nulla.
- Puoi sempre indovinare! - lo sfidò con un ghignetto divertito, le dita che, distrattamente, arrivavano sulle sue labbra e le disegnavano seguendone i delineamenti, imitando ciò che lui aveva fatto poco prima sulle sue. La mano salì a coprirgli gli occhi infossati, per essere sicura che non barasse (si era già ampiamente dimostrato troppo incline al barare), dunque rimase in attesa ad aspettare i suoi primi tentativi.
Giochi?
- Quando vuoi! -

I tried many times but nothing was real
Make it fade away, don't break me down
I want to believe that this is for real
Save me from my fear
Don't tear me down
 
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